"[...] nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, tutto l’interesse si appunta sulle armi più immediate, sui problemi di tattica, in politica e sui minori problemi culturali nel campo filosofico. Ma dal momento in cui un gruppo subalterno diventa realmente autonomo ed egemone suscitando un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente l’esigenza di costruire un nuovo ordine intellettuale e morale, cioè un nuovo tipo di società e quindi l’esigenza di elaborare i concetti più universali, le armi ideologiche più raffinate e decisive. [...] Si può così porre la lotta per una cultura superiore autonoma; la parte positiva della lotta che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a‑ privativi e gli anti‑ (anticlericalismo, ateismo, ecc.). Si dà una forma moderna e attuale all’umanesimo laico tradizionale che deve essere la base etica del nuovo tipo di Stato." (Antonio Gramsci, Q 11, nota 70)

venerdì 7 novembre 2014

NOTE PER IL PRIMO SEMINARIO ROMANO SU GRAMSCI


Ai partecipanti al primo seminario romano su Gramsci, 
sulla concezione comunista del mondo e sulla riforma morale e intellettuale.

Agli interessati.
 
Note per il primo seminario romano

L’otto novembre teniamo a Roma un primo seminario sul contributo di Gramsci all’elaborazione della concezione comunista del mondo e della riforma morale e intellettuale. Ne seguiranno uno sulla Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata e un terzo sul Vaticano.
Le note che seguono sono tratte da quelle elaborate prima e dopo i seminari napoletani alla Festa Nazionale della Riscossa Popolare di quest’anno. È utile che chi partecipa al corso le studi.
Sono un primo materiale di costruzione dell’opera in corso, cioè la restituzione al mondo di Antonio Gramsci, la sua rinascita, che è aspetto essenziale della rinascita del movimento comunista italiano e del movimento comunista mondiale. Il seminario romano mira a essere contemporaneamente sviluppo della costruzione ed elaborazione di materiali di costruzione nuovi.
Né queste note sono né le prossime saranno una sintesi del pensiero di Gramsci su concezione comunista del mondo e su riforma morale e intellettuale. Per una sintesi del genere non bastano né quattordici né quattordicimila pagine. La sintesi del pensiero di Gramsci sta nella sua realizzazione. Anche qui un passo avanti nella Guerra Popolare Rivoluzionaria vale più di mille dibattiti a vuoto. Questo quindi è solo un inizio. Continuons le combat.
Un saluto a pugno chiuso.

Paolo Babini
Commissione Rinascita Gramsci
Firenze, 5 novembre 2014

Concezione comunista del mondo e riforma morale e intellettuale

Conoscere è fare

Discutendo nell’incontro del 19 settembre della Commissione Rinascita Gramsci a Firenze abbiamo parlato di Antonio Labriola (Cassino, 1843, Roma, 1904), il filosofo che introdusse il marxismo in Italia, che insegnò per grande parte della sua vita a Napoli. Spesso Gramsci fa riferimento a lui. La filosofia di Labriola, infatti, è parte dello sviluppo della concezione comunista del mondo in Italia. Anche Labriola  affermava che la verità si raggiunge con il fare, che questo era già noto nella Grecia antica, ai tempi di Socrate: “Socrate per il primo scoprì: essere il conoscere un fare, e che l’uomo conosce bene solo quello che sa fare.”[1]
La verità si scopre creandola.
Nella concezione borghese del mondo esistono tante verità quanti sono gli individui che le portano avanti funzionalmente ai loro obiettivi di successo personale (la verità si ha, la mia verità finisce dove comincia la tua, come fosse un campo, o un orto). Nella concezione clericale del mondo la verità è una, ed è quella di Dio (la verità è). Nella concezione comunista la verità è una, ed è deducibile dalla conduzione dell’esperienza e dalla successiva fase di bilancio (la verità si fa). Imparare a scoprire la verità significa farla.
La verità si crea insieme.
Questa verità è prodotto e patrimonio collettivo: non la si trova da soli, non ci si emancipa da soli, non si passa, per usare la terminologia di Gramsci, da una condizione isse a una condizione attiva da soli. Chi viene dalle masse popolari e avanza da solo rispetto alla propria classe non fa altro che entrare nella classe avversa: un esempio è lo studente che usa lo studio non per fare avanzare l’intera classe, del sindacalista che fa il proprio interesse anziché quello dei lavoratori, di Luigi Longo a fronte di Teresa Noce: Longo voleva divorziare ma non si attivò per imporre una legge che consentisse il divorzio alla popolazione italiana, come lei chiedeva, ma divorziò di nascosto da lei, falsificando la sua firma, spalleggiato dal Comitato Centrale del Partito.

Studiare dipende da noi

La teoria rivoluzionaria è tale solo se è fatta propria dalle masse, ed è tale solo se si traduce in pratica. È tale, inoltre, se è “un vertice inaccessibile al campo avversario”, come dice Gramsci, ed è inaccessibile nel doppio senso per cui la borghesia non la comprende e per cui non può fermarne lo sviluppo. Quando diciamo che “non possiamo studiare” descrivendo tutta una serie di motivi oggettivi che ce lo impediscono non diciamo la verità. Studiare dipende da noi.
La scarsa volontà di studiare non è dovuta a mancanza di tempo o al fatto che ci sono altre cose più importanti da fare. È dovuta alla convinzione che la concezione comunista del mondo non è vera, che al massimo è una bandiera da sventolare e non una scienza. Questo modo di pensare è diffuso: si prende sul serio lo studio che, magari, mi consentirà di diventare medico o avvocato, ma non quello che mi consente di diventare un dirigente della Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga Durata. Chi ragiona in questo modo pensa che per fare la rivoluzione basta la volontà e non ci vuole scienza, e perciò non studiano quello che il Partito gli dice di studiare, e leggono i documenti della carovana, quando li leggono, come si legge il giornale.
I compagni e le compagne che hanno figli devono sapere spiegare loro che essere comunisti è essere scienziati, e che la concezione comunista del mondo è scienza come quelle che stanno studiando a scuola. Che i loro figli lo credano o no è secondario, ma è necessario che loro li informino di come stanno le cose, e ancora prima, quindi, è necessario che loro, i genitori, siano convinti che le cose stanno così, e cioè che la concezione comunista del mondo è una scienza, e non una fede. Se non sono convinti di questo i figli non sapranno comprendere perché i genitori fanno quello che fanno, ed è possibile che perdano il loro rispetto.
Quelli che non studiano sono quindi convinti che lo studio non è importante. Nelle Lotte Ideologiche in corso in Campania e in Toscana abbiamo casi esemplari di compagni che non ritenevano lo studio importante. A causa di questo hanno perso il ruolo dirigente che era stato loro attribuito dal Partito, o addirittura non sono stati capaci di stare nel Partito.
Chi studia, chi discute delle questioni teoriche in modo scientifico, si sente libero, e non sente il lavoro politico come un peso. Questo è il senso di quello che ha detto una giovane compagna napoletana al seminario sulla riforma morale e intellettuale tenuto alla Festa di Napoli.

Pensieri concreti

Quello che Marx chiama concreto del pensiero è capacità di cogliere i vari aspetti che compongono una cosa o un processo, e prima di tutto gli aspetti opposti che costituiscono la sua contraddizione principale, dalla quale le altre contraddizioni dipendono. La crisi, ad esempio, vista in modo unilaterale, è distruzione e caos, ma questo modo di vedere oltre che proprio del senso comune è soprattutto proprio della concezione borghese del mondo. La borghesia infatti sente che la crisi è segno della propria fine, e dall’altro lato non può comprendere che questa è la sua fine, perché non sa vedere altro assetto sociale oltre a quello in cui lei domina. Per quanto le masse popolari vedono la crisi in questo modo, tanto ne sono schiacciate. La crisi, invece, intesa concretamente, è unità di opposti come impossibilità di mantenere il regime borghese e quindi, insieme, spinta a superarlo. Da un lato mostra gli orrori che comporta il persistere del modo di produzione capitalista, dall’altro impone di avere scienza e fiducia e costruire il nuovo mondo. Scienza e fiducia e costruzione della rivoluzione sono materia della riforma morale e intellettuale.

Tutti i membri del partito sono intellettuali

“Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali: ecco un‘affermazione che può prestarsi allo scherzo; pure, se si riflette, niente di più esatto.”[2]

Una teoria può essere buona a spiegare il passato e non a spiegare il futuro?

Nella Nota 9 del Quaderno 16[3] Gramsci dice che Croce apprezza il marxismo perché spiega aspetti della realtà, ma nega che serva per trasformarla. Il modo in cui Croce si pone rispetto alla teoria rivoluzionaria è come quello di chi (anche dentro la carovana) dice che le analisi del (n)PCI ha fatto finora sono confermate, ma quanto al futuro non si sa se valgano. Questi dicono che quanto al presente non si può negare che questo partito dice il giusto, ma per il futuro, per decidere se è nel giusto o no, aspettano che vinca. Sono come quelli che dicono “aderirei allo sciopero se aderissero tutti”.
Una teoria può essere buona a spiegare il passato e il presente e non a “spiegare” il futuro?
“Di tutte le cose che vanno spiegate
una è spiegare le ali”[4]

Cosa è l’uomo?

Dalla Nota 54 del Quaderno 10[5] Gramsci risponde alla domanda “cosa è l’uomo?”. Secondo le concezioni del mondo che hanno preceduto la concezione comunista l’individuo viene prima del collettivo. Sarebbe l’individuo a creare il collettivo (Adamo che genera l’umanità, il capitalista che si spaccia come creatore delle condizioni materiali per la produzione e riproduzione dell’intera società). Secondo il cristianesimo l’individuo è “persona”. Secondo il borghese l’individuo è l’io, cioè lui stesso (lui, come individuo, si sente e si crede differente da tutti gli altri individui: questo corrisponde al suo anteporre il proprio profitto al benessere di ogni altro, anche dell’intera umanità).
Secondo la concezione comunista del mondo il collettivo viene prima dell’individuo, e anzi, secondo Gramsci, l’individuo non è una sostanza fissa e separata da altre, ma è soggetto collettivo, intreccio di rapporti, per cui “farsi una personalità significa acquistare conoscenza di tali rapporti, modificare la propria personalità significa modificare l’insieme di questi rapporti (…) [e] averne coscienza più o meno profonda (cioè conoscere più o meno il modo in cui si possono modificare) già li modifica. Gli stessi rapporti necessari in quanto sono conosciuti nella loro necessità cambiano d’aspetto e d’importanza. La conoscenza è potere, in questo senso.”[6] Alla luce di queste affermazioni la spiegazione della concezione comunista del mondo già cambia il nostro interlocutore solo in quanto è resa nota senza pretendere che chi la ascolta la faccia propria. Non a caso in molti corsi di formazione sul Manifesto Programma del (nuovo)PCI , anche solo al primo livello, quello dove la concezione comunista del mondo è semplicemente esposta, si creano situazioni di conflitto a fronte delle prospettive di cambiamento che si aprono, e che mettono paura, perché temiamo, trasformandoci, di perderci.

Oltre l’adesione identitaria

Sotto una tabella dove a destra riporto lo scritto di Gramsci e in quella di sinistra la traduzione in italiano moderno, (libero da censura fascista e ripulito da falsificazioni revisioniste e da accademismi utili solo a perder tempo).

GRAMSCI[7]
TRADUZIONE
 (…) Come è avvenuto il passaggio da una concezione meccanicistica a una concezione attivistica e quindi la polemica contro il meccanicismo. Come si passa dalla adesione identitaria ad essere costruttori della rivoluzione e quindi la polemica contro la concezione della “rivoluzione che scoppia” per cause meccaniche, indipendenti da noi.
L’elemento «deterministico, fatalistico, meccanicistico» era una mera ideologia, una superstruttura transitoria immediatamente, resa necessaria e giustificata dal carattere «subalterno» di determinati strati sociali.

La classe sfruttata è stata abituata a pensare che il suo destino non dipende da lei, e quindi non dipende da lei nemmeno la sua liberazione. Aspetta quindi che avvenga grazie a cause meccaniche (o grazie a qualche “grande uomo: “ci vorrebbe di nuovo Lenin! Ci vorrebbe di nuovo Stalin!”)
Quando non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa quindi finisce con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente. «Io sono sconfitto, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare». È un «atto di fede» nella razionalità della storia, che si traduce in un finalismo appassionato, che sostituisce la «predestinazione», la «provvidenza» ecc. della religione. In realtà esiste, anche in questo caso, un’attività volitiva, un intervento diretto sulla «forza delle cose», ma di un carattere meno appariscente, più velato. Soprattutto quando le lotte si concludono sempre con sconfitte, allora diventa un elemento di grande forza pensare che “un giorno la storia ci darà ragione!” e “i nodi verranno al pettine!” Ci si aspetta questo come un tempo si aveva fede nella provvidenza. Questo è quello che chiamiamo “adesione identitaria” che ha avuto quindi un ruolo molto importante per un lungo periodo di tempo.




Ma quando il subalterno diventa dirigente e responsabile, il meccanicismo appare prima o poi un pericolo imminente, avviene una revisione di tutto il modo di pensare perché è avvenuto un mutamento nel modo di essere: i limiti e il dominio della «forza delle cose» vengono ristretti, perché? perché, in fondo, se il «subalterno» era ieri una «cosa», oggi non è più una «cosa», ma una «persona storica», se ieri era irresponsabile perché «resistente» a una volontà estranea, oggi è responsabile perché non «resistente», ma agente e attivo. Però al  momento in cui chi è diretto inizia a dirigere, diventa responsabile di quello che accade, e la liberazione e la rivoluzione dipendono da lui, allora la adesione identitaria che fino ad allora era servita ora diventa un ostacolo a procedere, e un pericolo per il partito. C’è stato un cambiamento: prima eravamo “cose” e di noi succedeva quello che altri volevano succedesse, e al massimo, come “cose” potevamo resistere a chi ci attaccava come la pietra resiste al piccone, ma oggi no, oggi il piccone è in mano nostra.
Ma era stato mai mera «resistenza», mera «cosa», mera «irresponsabilità»? Certamente no, ed ecco perché occorre sempre dimostrare la futilità inetta del determinismo meccanico, del fatalismo passivo e sicuro di se stesso, senza aspettare che il subalterno diventi dirigente e responsabile. C’è sempre una parte del tutto che è «sempre» dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto come anticipazione teorica. Ma eravamo solo pietra ieri? No. Anche ieri era sbagliato rimanere come degli stupidi ad aspettare che la rivoluzione scoppiasse, ad aspettare il momento che chi era burattino diventasse essere umano, perché ci deve sempre essere qualcuno che si pone come dirigente e come responsabile, anche quando la reazione è più dura, e così è sempre stato nel movimento comunista, con Marx ed Engels dopo le sconfitte del movimento operaio nel 1848, con Lenin dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905 e il tradimento dei Partiti Socialisti della Seconda Internazionale, con Gramsci che scrive questi Quaderni in carcere, con Mao Tse tung che dirige il Partito nella Lunga Marcia e poi fino alla vittoria, con la carovana del (nuovo)PCI che dopo la sconfitte del movimento counista italiano e internazionale dagli anni Settanta del secolo scorso in poi elabora questi strumenti che oggi impariamo a conoscere, a fare nostri, a usare.

 

Gramsci e Mao

Relazione tra la riforma morale e intellettuale di cui Gramsci parla e il sesto contributo del maoismo come definito dalla carovana del (n)PCI.

Sia gli scritti  di Gramsci sia quelli di Mao arrivano alle stesse conclusioni sulla riforma morale e intellettuale. Si tratta di due dirigenti che hanno elaborato l’esperienza della lotta di classe in condizioni opposte (paese imperialista - paese oppresso e semicoloniale, uno in carcere - l’altro a capo di un’armata, uno in Italia, l’altro in Cina) e che arrivano alle stesse conclusioni, il che rafforza la convinzione che sono conclusioni oggettive, scientifiche.
Di seguito porto un esempio della coincidenza tra riforma intellettuale e morale e sesto contributo del maoismo.
“Introduzione allo studio della filosofia. I. Il termine di «catarsi». Si può impiegare il termine di «catarsi» per indicare il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico‑passionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall’«oggettivo al soggettivo» e dalla «necessità alla libertà». La struttura da forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico‑politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento «catartico» diventa così, mi pare, il punto di partenza per tutta la filosofia della praxis; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultato dello svolgimento dialettico. (Ricordare i due punti tra cui oscilla questo processo: – che nessuna società si pone compiti per la cui soluzione non esistano già o siano in via di apparizione le condizioni necessarie e sufficienti – e che nessuna società perisce prima di aver espresso tutto il suo contenuto potenziale).” [8]
Il processo di trasformazione per cui si passa dall'essere comunista "perché lo siamo" all'essere comunista perché lo diventiamo è effettivamente catartico, nel senso che è un percorso travagliato tramite cui si giunge a una liberazione da gravami che pesano addosso da sempre. Quindi è liberazione da una situazione  schiava di condizioni economiche imposte, o del momento egoistico passionale, come dice Gramsci, e passaggio al momento etico politico, cosa che tradotta significa che l'azione politica è prioritaria, e le questioni personali o familiari dipendono da essa. Quindi non è prioritario che innanzitutto mi occupi dei figli e che non manchi loro nulla, ma che io faccia dell'Italia un nuovo paese socialista, perché l'avvenire di mio figlio dipende da questo.
Non sono più quindi un comunista che ha come riferimento come termine fisso e prioritario le mie condizioni personali, familiari ed economiche come dato oggettivo e necessario, ma che invece ha come riferimento lo stesso essere comunista, cioè la mia soggettività e l'orizzonte di libertà che essa apre. Questo nuovo modo d'essere comunista è quello indicato dal sesto contributo del maoismo.
“Catarsi” significa che in questa epoca noi lasciamo alle spalle millenni di oppressione e conquistiamo la libertà, costruiamo la libertà, e nessuno ce lo può impedire. Noi non siamo più schiavi dell’economia, dall’assillo di procurarci da vivere che rende l’umanità schiava fin dai tempi della preistoria. Non decideremo più seguendo gli obblighi che le leggi economiche impongono, ma noi imporremo le leggi del comportamento collettivo, le leggi politiche, e del comportamento individuale, le leggi etiche. Questo significa che è il soggetto a decidere, che è la classe operaia, che sono le masse popolari, e non più una classe di sfruttatori, che impone  a noi le sue leggi dicendo che “sono leggi oggettive”. I modi di produzione che si sono susseguiti fino a oggi sono stati la struttura  delle società divise in classi, e noi siamo stati schiacciati, resi passivi, schiavi, servi, operai assorbiti in un meccanismo estraneo. Oggi pero questa struttura si è evoluta in maniera tale che il carattere collettivo delle forze produttive non rende più necessaria la divisione in classi, cioè la proprietà privata dei mezzi di produzione e quindi da sistema di oppressione che è sempre stata si è convertita in strumento di liberazione, in spinta a liberarci, in imposizione a liberarci: essere liberi è ormai un dovere. Questa condizione, che si realizza nella metà dell’Ottocento, fa sorgere il movimento comunista cosciente e organizzato,  e precisamente nel 1848, con la pubblicazione del Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels.
La parte finale del testo di Gramsci tra parentesi è citazione dalla Introduzione alla critica dell’economia politica di Marx: «Una formazione sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi più alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò l’umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può risolvere; se si osserva con più accuratezza si troverà sempre che il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esistono già o almeno sono nel processo del loro divenire»

Come insegnare

Nella tabella sotto nella colonna a sinistra Gramsci scrive come si insegna la filosofia, nella colonna a destra è tradotto quello che vuole dire in italiano moderno.

GRAMSCI [9] TRADUZIONE
Nell‘insegnamento della filosofia, rivolto non ad informare storicamente il discente sullo svolgimento della filosofia passata, ma a formarlo culturalmente, ad aiutarlo a elaborare criticamente il proprio pensiero per partecipare a una comunità ideologica e culturale, è necessario prendere le mosse da ciò che il discente già conosce, dalla sua esperienza filosofica (dopo avergli dimostrato appunto che egli ha una tale esperienza, che è "filosofo" senza saperlo). Nell’insegnamento della concezione comunista del mondo, rivolto non a informare lo studente della storia che ha alle spalle, ma a formarlo, a insegnargli a pensare, così che possa essere partecipe di una forma di esistenza di livello superiore, cioè di essere espressione di un collettivo, e al livello più elevato espressione del Partito, è necessario agire per linee interne, partire da quello che lui sa e da quella a cui lui aspira (dopo avergli dimostrato che ciò cui lui veramente aspira, senza saperlo, è trasformare il mondo, cioè fare la rivoluzione).

Comportamento immorale

Tre sono le forme di comportamento immorale definite dal (n)PCI,
o   la prima è il rassegnarsi, corrispondente alla concezione clericale del mondo,
o   la seconda è il salvarsi a spese altrui, corrispondente alla concezione borghese del mondo nella versione di destra,
o   la terza è il dedicarsi esclusivamente a sé, ai propri consanguinei e a chi ci sta accanto, corrispondente alla concezione borghese del mondo ma in una versione di sinistra. È “occuparsi della famiglia visto che lo Stato non se ne occupa”, cosa che secondo il senso comune è tutto fuori che immorale. Il senso comune infatti giudica una comportamento morale o meno in termini astratti, come se stesse in relazione a leggi eterne. In realtà la moralità di una norma sta nella sua efficacia: mangiare carne di maiale nei paesi arabi non è immorale perché contrario al volere divino, ma perché dannoso per la salute. Allo stesso modo occuparsi solo della famiglia in tempi di crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale significa danneggiare la famiglia. Un esempio dei partigiani che lasciavano le famiglie e il combattere era modo per difenderle. Nel nuovo movimento comunista tutta la famiglia deve abbracciare la “lotta partigiana”.

Perché avanziamo lentamente?

I motivi per cui “avanziamo lentamente” sono indicati nel numero 7-8 di Resistenza di luglio-agosto 2014.
o   Parlando del primo motivo l’articolo descrive il dirigente che fa autocritica come si fa al confessionale. Questo quindi è espressione della concezione clericale del mondo. Il dirigente che fa in questo modo non si trasforma. Anche questo corrisponde alla concezione clericale del mondo, in cui chi si confessa con ciò si ritiene purificato e torna poi a fare come prima, il che non solo è previsto ma è obbligatorio, perché “l’essere umano è peccatore”, e se smettesse di esserlo, i preti perderebbero il lavoro.
o   Il secondo motivo per cui avanziamo lentamente è determinato dal “membro di partito che rifiuta o recalcitra a intraprendere il processo di Critica-Autocritica-Trasformazione della sua concezione del mondo, della sua mentalità e in parte anche della sua personalità” (Resistenza 7-8, cit., p. 8). Questo caso è catalogabile come modo della concezione borghese del mondo perché il borghese, che pone l’individuo, cioè se stesso, come centro dell’universo, non può mettersi in discussione, non può non essere “tutto di un pezzo”, e tale è anche chi si reputa “comunista arrivato”. Vedremo poi nella sessione sul Vaticano che la resistenza all’autocritica è propria anche della concezione clericale del mondo. A partire dall’inizio dell’epoca imperialista, quando la borghesia perde il suo carattere progressista, questa concezione dell’individuo come centro attivo dal punto di vista intellettuale[10]  e morale[11]  si disgrega, l’individuo va a pezzi, come nel caso del Dottor Jekill e di Mr. Hyde. Qui intervengono gli psicanalisti i quali però non prevedono che il soggetto, di fronte al dramma che lo assilla, si trasformi, ma che “si accetti così come è”, il che è conforme alla concezione borghese del mondo che oltre all’individuo, positivo o negativo che sia, non vede.  Riguardano la riforma morale e intellettuale i versi di Mao riportati nell’ultimo numero di Resistenza, citato sopra, Guardati dall’inquietudine traboccante che spezza il cuore/ getta un sguardo lungimirante sulle cose del mondo. Brecht in Me-Ti, il libro delle svolte, scrive: “I classici vissero nei tempi più oscuri e sanguinosi. Essi erano i più sereni e fiduciosi degli uomini.” Mancanza di serenità è inquietudine, o irrequietezza, il che, secondo Gramsci, si accompagna all’agire ciecamente, ma anche è segno di ipocrisia. 
Irrequietezza
Gramsci tratta dell’irrequietezza nella Nota 58[12] del Quaderno 14. Gramsci scrive: “Intanto non è vero che irrequieti siano solo gli «attivi» ciecamente: avviene che l’irrequietezza porta all’immobilità: quando gli stimoli all’azione sono molti e contrastanti, l’irrequietezza appunto si fa «immobilità».” Nell’ultima Festa Nazionale della Riscossa Popolare a Napoli gli “attivi ciecamente” erano quelli che cercavano di fare di tutto e di più, che saltavano o ritardavano pranzi e cene, che perdevano notti di sonno, e magari di fronte agli eventi restavano immobili: compagni che hanno fatto la notte al momento che è cominciata una pioggia torrenziale non hanno provveduto a mettere al riparo libri e materiale elettrico, e sono rimasti a guardare, come se intervenire non fosse necessario, per cui si è perduto materiale. Da un lato c’è chi fa e corre ovunque per fare tutto, dall’altro chi è fermo. La soluzione non sta nel tentare di fare tutto, nell’incremento quantitativo del fare, ma in un fare differente, in un fare che da artigianale diventa industriale, diremo nell’ultimo seminario napoletano, il 27 luglio.
Il fare cieco, e il fare di più, è proprietà del modo di produzione capitalista. La borghesia come classe non sa quello che fa. Non ha uno scopo cosciente come classe. La sua azione è una combinazione degli scopi che ciascuno dei suoi componenti si propone, e ciascuno si propone il proprio profitto. La borghesia non comprende che l’incremento del profitto all’infinito è impossibile. Non comprende che la promessa di uguaglianza su cui fonda il patto con il resto delle masse popolari è impraticabile, perché significa abolizione della divisione in classi, e quindi abolizione di se stessa e del modo di produzione capitalistico. Tutto quello che la borghesia fa è “fare di più”, cioè contrastare la caduta tendenziale del tasso di profitto e, in particolare, in questa fase terminale della seconda crisi generale per sovrapproduzione assoluta di capitale, tentare di fare crescere una massa di capitale che è già cresciuta in modo esorbitante rispetto alla quantità effettiva di merci prodotte. È come se avessimo un immobile del valore di un milione di euro attorno al quale si azzannano capitalisti ciascuno detentore di una quota a quell’immobile riferita, con una somma delle quote cento volte quel milione, e ciascuno pretendendo di incrementare la sua quota del dieci o venti per cento, tramite affitti, speculazioni, vendita, distruzione dell’immobile al fine di riscuotere l’assicurazione, eccetera. Il “fare ciecamente” e il “fare di più” sono quindi catalogabili come modi della concezione borghese del mondo.
Gramsci prosegue scrivendo: “Si può dire che l’irrequietezza è dovuta al fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera mentre nell’operare c’è una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare, e si «confessa» ossia si afferma una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica.”[13]
Mancanza di identità tra teoria e pratica è, ad esempio, dichiarare che si vuole fare dell’Italia un nuovo paese socialista, che si vuole fare nella propria città una Amministrazione Locale di Emergenza, che stiamo portando avanti una Guerra Popolare Rivoluzionaria, ma non agire di conseguenza, non fare i passi necessari per mettere in pratica questo che noi ripetiamo perché sta nei documenti del partito e, in definitiva, non credere possibile che tutto quello che diciamo di voler fare si possa fare. Questo è uno dei corni della “doppia ipocrisia”.
Se uno non crede a tutta un serie di principi, metodi, obiettivi chiave della carovana del (n)PCI, perché ci resta, se ci resta, e come ci resta? Ci resta perché la carovana è l’aggregato del movimento comunista più avanzato del paese, a fronte del quale gli altri aggregati quanto più la crisi va avanti si manifestano inadeguati e in via d’estinzione. Chi non vuole cessare di riconoscersi ed essere riconosciuto come comunista trova nella carovana il migliore posto dove stare, o meglio “troverebbe”, perché nella carovana non si “sta”, ma si “va”, cioè ci si trasforma, e se così non fosse non sarebbe una carovana. A partire dalla prima LIA sempre si è prodotta questa contraddizione tra intendere l’organismo politico come un posto dove stare o come un mezzo con cui andare.
Gramsci scrive “Questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione. Ma c’è una terza ipocrisia: all’irrequietezza si cerca una causa fittizia, che non giustificando e non spiegando, non permette di vedere quando l’irrequietezza stessa finirà.”[14] Questo è riferito a chi, quando le cose non vanno bene, incolpa altri. All’esterno sono quelli che danno la colpa della sconfitta al nemico, alla borghesia imperialista, come non fosse obbligo della borghesia sconfiggerci con ogni mezzo, o alle masse popolari, che non ci capiscono o che non hanno il coraggio che abbiamo noi, che, cioè, non sono al nostro livello intellettuale e morale. All’interno, sono quelli che per una cosa andata male incolpano i dirigenti superiori, che hanno loro affidato una “missione impossibile” o i diretti, che non hanno eseguito i loro ordini.
Questa Nota si conclude dicendo “la crisi è talmente grave e domanda mezzi così eccezionali, che solo chi ha visto l’inferno può decidersi ad impiegarli senza tremare ed esitare”. Una compagna romana, intervenendo sulla questione al seminario napoletano su riforma morale e intellettuale alla Festa Nazionale della Riscossa Popolare di Napoli, rispondendo ai molti che erano intervenuti sulla questione dell’”inferno”, diceva giustamente che il vero nostro motore è il “paradiso”, cioè la prospettiva che si apre alle masse popolari e che i comunisti già sperimentano nel partito.
Sempre nel seminario napoletano, in un’altra sessione, sarà importante il contributo di un compagno dirigente del Partito che descriverà come “inferno” la situazione in cui era precipitato nell’ultima fase dell’attività che il Partito gli aveva dato da svolgere a Napoli, una crisi che aveva avuto il suo apice alla Festa della Riscossa Popolare dell’anno precedente.
Un esempio di irrequietezza
Al seminario napoletano sulla riforma morale e intellettuale un compagno napoletano aveva detto di essere capace di dirigersi, ma non di dirigere. D’altro lato si smentiva, affermando di “mancare di serenità” e di “agire ciecamente”. In una sua lettera successiva di fine settembre dove spiegava di voler lasciare il partito avrebbe confermato la contraddizione che esprimeva qui.
L’irrequietezza o inquietudine di cui parla Gramsci nella Nota sopra citata secondo la concezione della sinistra borghese è una cosa positiva e nobile, segno di una visione critica del mondo, segno che “non c’è certezza”, come diceva Lorenzo de Medici (“Quant’è bella giovinezza,/che si fugge tuttavia./Chi vuol esser lieto, sia./Del doman non c’è certezza” [questa possiamo usarla per il settore giovani, come esempio negativo, NdR]). Secondo Gramsci invece è ipocrisia: è affermare un principio senza veramente crederci, cioè mancanza di assimilazione della concezione comunista del mondo. È quindi immorale. A questo tipo di crepa morale corrisponde l’errore logico che nella lettera del compagno è chiaro: presumere che esiste una libertà al di fuori dei due campi, quello della borghesia imperialista e quello delle masse popolari. Questi compagni pensano che ci sono i borghesi, ci sono i comunisti, e c’è un terzo campo dove ci sono loro. Questo terzo campo non esiste, in realtà. Chi tenta di vivere in questa terra immaginaria agirà più ciecamente di prima e di sicuro non guadagnerà alcuna serenità.

Disciplina

La disciplina consiste nel seguire un insieme di norme, di principi morali (“etici”). Gramsci scrive:
“Non può esistere associazione permanente e con capacità di sviluppo che non sia sostenuta da determinati principii etici, che l’associazione stessa pone ai suoi singoli componenti in vista della compattezza interna e dell’omogeneità necessarie per raggiungere il fine. Non perciò questi principii sono sprovvisti di carattere universale. Così sarebbe se l’associazione avesse fine in se stessa, fosse cioè una setta o un’associazione a delinquere (in questo solo caso mi pare si possa dire che politica ed etica si confondono, appunto perché il «particulare» è elevato a «universale»). Ma un’associazione normale concepisce se stessa come aristocrazia, una élite, un’avanguardia, cioè concepisce se stessa come legata da milioni di fili a un dato raggruppamento sociale e per il suo tramite a tutta l’umanità. Pertanto questa associazione non si pone come un qualche cosa di definitivo e di irrigidito, ma come tendente ad allargarsi a tutto un raggruppamento sociale, che anch’esso è concepito come tendente a unificare tutta l’umanità. Tutti questi rapporti danno carattere tendenzialmente universale all’etica di gruppo che dev’essere concepita come capace di diventare norma di condotta di tutta l’umanità. La politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale, cioè come tendente a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale saranno superate entrambe.”[15]
 “Battere l‘accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è veramente difficile e arduo.” [16]

Polemiche e scissioni

Il partito è il laboratorio dove si sperimenta la nuova morale che sarà morale universale durante il socialismo.
“…non può parlarsi di élite‑aristocrazia‑avanguardia come di una collettività indistinta e caotica; in cui, per grazia di un misterioso spirito santo o di altra misteriosa e metafisica deità ignota, cali la grazia dell’intelligenza, della capacità, dell’educazione, della preparazione tecnica ecc.; eppure questo modo di concepire è comune. Si riflette in piccolo ciò che avveniva su scala nazionale, quando lo Stato era concepito come qualcosa di astratto dalla collettività dei cittadini, come un padre eterno che avrebbe pensato a tutto, provveduto a tutto ecc.; da ciò l’assenza di una democrazia reale, di una reale volontà collettiva nazionale e quindi, in questa passività dei singoli, la necessità di un dispotismo più o meno larvato della burocrazia. La collettività deve essere intesa come prodotto di una elaborazione di volontà e pensiero collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un processo fatale estraneo ai singoli: quindi obbligo della disciplina interiore e non solo di quella esterna e meccanica. Se ci devono essere polemiche e scissioni, non bisogna aver paura di affrontarle e superarle: esse sono inevitabili in questi processi di sviluppo ed evitarle significa solo rimandarle a quando saranno precisamente pericolose o addirittura catastrofiche, ecc.”[17]
“Una coscienza collettiva, e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo che la molteplicità  si è unificata attraverso l‘attrito dei singoli.”[18] Qui è indicata la funzione necessaria della lotta tra due linee e della lotta ideologica attiva per la costruzione e il rafforzamento del partito.

L’estraneità dell’individuo rispetto al partito

“Un organismo collettivo è costituito di singoli individui, i quali formano l‘organismo in quanto si sono dati e accettano attivamente una gerarchia e una direzione determinata. Se ognuno dei singoli componenti pensa l‘organismo collettivo come un‘entità  estranea a se stesso, è evidente che questo organismo non esiste più di fatto, ma diventa un fantasma dell‘intelletto, un feticcio.”[19]
Questo vale per quelli che mettono l’individuo, cioè se stessi, prima del collettivo, che sono nel partito ma non riconoscono, come prima cosa, che il partito sono loro. Tutti pensassero a questo modo, il partito non esisterebbe.
Questo modo di pensare e il comportamento che implica sono deleteri. Come altre cose deleterie, è parte della concezione clericale del mondo. Gramsci lo dice:  “E‘ naturale che avvenga per la Chiesa, poiché, almeno in Italia, il lavorio secolare del centro vaticano per annientare ogni traccia di democrazia interna e di intervento dei fedeli nell‘attività  religiosa è pienamente riuscito ed è divenuto una seconda natura del fedele”. Non è naturale, però, che questo avvenga nel partito comunista. Secondo Gramsci  “ciò che fa meraviglia, e che è caratteristico, è che il feticismo di questa specie si riproduca per organismi "volontari", di tipo non "pubblico" o statale, come i partiti e i sindacati.” In altre parole, nel partito si sceglie di stare, per cui è strano che chi sceglie di starci non se ne senta parte.
Strano in realtà non è, ma espressione di un limite che il partito deve togliere se vuole fare la rivoluzione, se vuole fare dell’Italia un nuovo paese socialista.
Chi pensa al partito come cosa estranea a se stesso si tiene distante dal partito. La sua è mentalità piccolo borghese. Il (nuovo)PCI tratta la questione in La Voce n. 18, del novembre 2004, in un testo dal titolo L’avversione istintiva nei confronti del partito comunista, che riporto in gran parte:
 L’avversione istintiva nei confronti del partito comunista
“Il piccolo-borghese e chi è impregnato della sua mentalità per sua natura rifugge dal partito, si sente respinto dal partito, lo trova un impedimento per la sua individualità e la sua libertà, vi si sente a disagio, cerca di sfuggire alla sua disciplina, cerca di servirsene. Oggettivamente il piccolo-borghese oggi va dal lavoratore autonomo proprietario al lavoratore anche dipendente ma abbastanza specializzato da essere più vicino (per le relazioni sociali in cui è inserito nella pratica, anche rispetto al padrone da cui riceve un salario) alla condizione di chi vende il prodotto del proprio lavoro che alla condizione di chi vende la sua forza lavoro. Il lavoratore di questo tipo è per sua natura una persona che crede di essere indipendente, autonomo dalla borghesia vera e propria (che oggi è, tipicamente, la borghesia imperialista). La mentalità, il carattere e il comportamento piccolo-borghesi sono quelli che corrispondono alla natura piccolo-borghese, alla posizione del piccolo-borghese nella società borghese. Consistono nel ritenere di essere individualmente autonomo, indipendente; di potersi muovere in questa società individualmente per conto proprio; di potersi fare individualmente la propria vita come gli piace. In realtà il piccolo-borghese nella vita sociale e quindi anche individuale ha una limitata autonomia dalla borghesia imperialista. Non è proprietario di mezzi propri in quantità sufficiente per essere autonomo. Come classe, i piccolo-borghesi dipendono strettamente dalla borghesia imperialista. Individualmente quindi il piccolo-borghese è poco autonomo sia economicamente sia intellettualmente e moralmente. A differenza del borghese che invece dispone dei mezzi necessari alla propria attività individuale autonoma in misura superiore a quella minima che le concrete relazioni sociali - storicamente determinate per ogni concreta società - definiscono per consentire a un individuo un’attività individuale autonoma. Chi condivide la mentalità del piccolo-borghese, trova repulsione di fronte al partito. Oppure tende ad usare il partito come strumento della propria affermazione individuale, senza immedesimarsi nel partito. Insomma il contrario della mentalità a cui l’esperienza spinge il proletario vero e proprio. Costui esiste socialmente solo se si coalizza con altri. Solo a questa condizione ha nella vita della società borghese un ruolo che va oltre quello di strumento del padrone per valorizzare il suo capitale. Non ha le doti particolari e relativamente rare del lavoratore molto specializzato (dell’intellettuale di successo, dello scienziato, del professionista affermato, ecc.) che grazie ad esse è membro apprezzato della società ed è dotato di una certa autonomia anche individualmente. Il proletario tipico è rimpiazzabile ad ogni momento con relativa facilità con altri individui relativamente abbondanti. Solo il numero organizzato fa dei proletari una potenza sociale. Uno a uno non sono nulla, ognuno è rimpiazzabile in ogni momento. La loro associazione è una potenza politica e culturale: questo è il partito. Il piccolo-borghese si sente menomato dal vincolo di partito. Il proletario grazie al vincolo del partito riesce finalmente ad esistere socialmente. Come partito può fare cose che individualmente gli sono precluse, tanto che neanche si illude (come invece succede al piccolo-borghese) di poterle esercitare individualmente. Il proletario si sente realizzare nel partito, sente di dovere tutto al partito, nel partito e grazie al partito si sente finalmente libero (capace) di fare quello che individualmente neanche sognava di fare. Il piccolo-borghese sente di aver dato molto al partito. Credo di essermi spiegato: non parlavo del piccolo-borghese in termini di insulto, ma di categoria sociale relativamente vasta. Una vasta categoria sociale che solo con difficoltà si adatta a diventare un uomo di partito, la rotella di un ingranaggio, la cellula vivente di un organismo, una parte attiva di un insieme sociale organizzato.
I comunisti che provengono da questa categoria sociale devono compiere uno specifico percorso per integrarsi completamente nel partito. I proletari che hanno appreso la lotta politica e il comunismo negli ambienti delle Forze Soggettive della Rivoluzione Socialista sono anch’essi più o meno impregnati di quella mentalità. Sono abituati a una piccola autonomia, a poco potere, a piccoli risultati e a piccoli obiettivi. A pensare in piccolo e a sbrogliarsela individualmente. La costruzione del partito comunista implica la trasformazione di questa mentalità, lo sdoppiamento dell’adesione al comunismo dalla dipendenza dalla borghesia. L’uno deve dividersi in due. Tramite la critica, autocritica, trasformazione. È un processo che richiede tempo e sforzi, ma è un processo liberatorio, di emancipazione dalla borghesia imperialista, bello e di grande soddisfazione, creativo.”
Gramsci, che sta trattando la stessa materia, nella sua Nota scrive: ” Il singolo s‘aspetta che l‘organismo faccia, anche se egli non opera e non riflette che appunto, essendo il suo atteggiamento molto diffuso, l‘organismo è necessariamente inoperante.” Insomma, se tutti si aspettano che il partito faccia qualcosa, visto che il partito sono loro, tutto è fermo, e quanti più sono quelli che si aspettano, tanto più il partito è fermo. Per tutti gli ambiti e il tempo in cui il partito è stato fermo e negli ambiti in cui continua a esserlo, è bene verificare quanti compagni hanno e quanto ogni compagno ha questo atteggiamento passivo. È una questione di vita. “ questione di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione quindi dei singoli, anche se ciò provoca un‘apparenza di disgregazione e di tumulto”,

Sconvolgimento della vecchia concezione e della vecchia morale

“Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità  o dell‘imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume.”[20]

Economia

Un compagno venuto da Milano al seminario su riforma morale e intellettuale di Napoli ha detto che la dedizione alla causa si vede nel modo in cui trattiamo le questioni economiche. L’economia è cruciale per la nuova morale.
Si tratta del considerare le risorse economiche come proprie oppure come collettive. Consideriamo normale affidare i soldi a banche, che li usano per le speculazioni o per operazioni criminali o devastanti per l’ambiente, e non consideriamo normale affidarli al partito. Anche qui “immorale” significa “contrario al proprio interesse”: il partito infatti si fa garante di ogni esigenza di chi si affida ad esso (e non solo), mentre la banca, invece, e pure lo Stato, oltre a usare il denaro che le masse popolari affidano loro per speculazioni, devastazioni e crimini di ogni tipo, se ne appropriano risucchiandolo a poco a poco o anche di colpo, con il prestito forzoso.
I più grandi dirigenti del movimento comunista non hanno mai avuto nè hanno proprietà di beni o denaro.

Sacrifici

Secondo il senso comune i comunisti, Gramsci incluso, sono gente che si sacrifica per la causa, che sacrifica alla causa il proprio tempo, le proprie risorse, la propria vita. Un compagno, al seminario napoletano sulla riforma morale e intellettuale spiega che la parola “sacrificare” viene dal latino “rendere sacro”. In effetti né Gramsci né i comunisti o le comuniste hanno perso qualcosa a vantaggio della causa, o meglio, hanno perso tutto ciò che impediva di essere uomini e donne nuovi, e si sono realizzati pienamente. Forse il compagno intendeva questo realizzarsi come “rendere sacro”?
È senso comune quello di compagni e compagne che dedicano qualcosa alla causa, però dicono che hanno bisogno anche di “tempo per se stessi”, per i quali vale il pensiero che il tempo dedicato alla causa è “sacrificato”.

Il partito “totalitario”

Bisogna imparare a pensare e sapere trasformarsi, comprendendo che il partito viene prima all’individuo. Questo intende Gramsci quando parla di “partito totalitario”[21], secondo un giovane compagno la cui famiglia viene da uno dei primi paesi socialisti. Un altro compagno aggiunge che il partito è “totalitario” perché orienta la vita di una persona nel suo insieme. La concezione comunista del mondo consente di decifrare la realtà di tutta la nostra vita. Il partito non costringe, ma libera.
Il partito, infatti, più che totalitario è organico, cioè è un tutto come lo è un organismo vivente. 




[1] Antonio Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, 1898. 

[2] Ivi.

[3] http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_16.

[4] Paolo Babini, Spiegare, 2006,

[5] http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_10

[6] Ivi.

[7] Q8 §205, in http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_8

[8] Quaderno 10, Nota 6, in http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_6.

[9] (Quaderno 11. Nota 13) in http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_11

[10] Cartesio, (L’Aia, 1596 – Stoccolma, 1650) uno dei fondatori della concezione borghese del mondo, parte chiedendosi se il mondo, lui incluso, sia realtà o sogno. Scopre quindi che questa domanda che pone a se stesso significa che sta pensando, e questo suo pensare conferma che lui esiste. La formula conclusiva è perciò “penso, quindi sono” (cogito, ergo sum).

[11] Spinoza (Amsterdam, 1632 – L’Aia, 1677), scrive i fondamenti morali della concezione borghese del mondo: la virtù fondamentale è quella che consente di conservare noi stessi e svilupparci, perché solo così facendo potremo essere utili anche agli altri. La formula è quella per cui dal bene individuale discende il bene collettivo.

[12] in http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_14.

[13] Ivi.

[14] Ivi.

[15] http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_6

[16] http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_14.

[17] ivi.

[18] http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_15.

[19] ivi.

[20] http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_6. Questa i revisionisti non sono riusciti a falsificarla. Questo, secondo Giuseppe Prestipino, è “il più discusso e deprecato dei passi gramsciani” (Autori Vari, Gramsci e il marxismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma, 1990, p. 52.

[21] In Quaderno 13, Nota 21.

Nessun commento:

Posta un commento