"[...] nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, tutto l’interesse si appunta sulle armi più immediate, sui problemi di tattica, in politica e sui minori problemi culturali nel campo filosofico. Ma dal momento in cui un gruppo subalterno diventa realmente autonomo ed egemone suscitando un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente l’esigenza di costruire un nuovo ordine intellettuale e morale, cioè un nuovo tipo di società e quindi l’esigenza di elaborare i concetti più universali, le armi ideologiche più raffinate e decisive. [...] Si può così porre la lotta per una cultura superiore autonoma; la parte positiva della lotta che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a‑ privativi e gli anti‑ (anticlericalismo, ateismo, ecc.). Si dà una forma moderna e attuale all’umanesimo laico tradizionale che deve essere la base etica del nuovo tipo di Stato." (Antonio Gramsci, Q 11, nota 70)

giovedì 3 marzo 2016

ODIARE GLI INDIFFERENTI O ORGANIZZARLI?

Per una riflessione Su Gramsci, Odio gli indifferenti, La Città Futura, unico numero, 17 febbraio 1917.
A  quasi 100 anni dalla pubblicazione.

(di Igor Papaleo, Commissione Gramsci del Partito del CARC) 

“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita”. È una delle più note e citate frasi di Antonio Gramsci. Secondo alcuni è un monito, secondo altri, un insegnamento. Per tutti quelli che la citano è convinzione che le cose non accadono tanto per opera di una ristretta minoranza (la classe dominante), ma piuttosto perché l'indifferenza della stragrande maggioranza (le masse popolari) lascia che accadano. Ciò che succede avverrebbe, quindi, perché le masse popolari non esercitano la loro volontà, lasciano che si varino leggi contro di loro, permettono che a governare siano persone indegne di amministrare la cosa pubblica. Si limitano, in alcuni casi, a lamentarsi delle miserie della vita e dell'umanità. Protestano. Rivendicano. Non agiscono.
Questa idea che le cose vanno male “perché le masse non si ribellano” è un pregiudizio molto diffuso. È una forma di opportunismo con cui fino a che si può ci si accontenta di ritenersi migliori degli altri come “differenti” rispetto agli “indifferenti”. Questo opportunismo diventa malafede per chi del diffondere simili pregiudizi ne fa un mestiere e cioè gli “intellettuali”, quelli che si qualificano tanto spesso come “intellettuali di sinistra”. Questi intellettuali manifestano sdegno e ostentano superiorità. Citano il Gramsci dell’“odio per gli indifferenti” perché, secondo loro, ognuno dovrebbe chiedersi  “se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Le cose andrebbero così male?”. O meglio, più precisamente, credendo che il loro ruolo si esaurisca nel dire quello che gli altri devono o dovrebbero fare, si domandano: “perché le masse popolari sono così sciocche da non accorgersi di quanto accade, da non ribellarsi a questo stato di cose, da non esercitare la propria volontà contro chi le sfrutta e le umilia?” In una sola espressione, “perché le masse sono così indifferenti alla sorte riservata loro da chi gestisce il potere? Eppure le cose sono così evidenti!” La conclusione cui questi intellettuali giungono è che le masse popolari sono ignoranti, arretrate e perciò sono indifferenti. Sostengono, più o meno apertamente, che oggi che un certo accesso all'istruzione pure è ancora garantito poiché conquistato, in altri anni, anche al prezzo di dure lotte, l'ignoranza è una colpa odiosa. L'indifferenza anche. Quindi, gli indifferenti vanno odiati. Questi intellettuali odiano gli indifferenti. Odiano chi non parteggia, dicono.

Parteggiare significa essere o prender parte a qualcosa o per qualcosa. Viene da chiedersi: questi intellettuali che citano Gramsci, per chi parteggiano? Fanno appello alle masse popolari, eppure le odiano, perché odiano la loro indifferenza. Puntano il dito contro gli sfruttatori, eppure non rispondono alla domanda che essi stessi si pongono (“se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?”) scaricandola sulle masse. Da che parte stanno questi intellettuali? Qual è effettivamente il loro ruolo? Qual è il ruolo dell'intellettuale in relazione alle masse popolari ed il rapporto tra questi e quelle? Ecco la domanda chiave.
L'intellettuale parteggia se non si limita ad esporre tesi o a fare opinioni. Non può limitarsi ad essere presunta coscienza critica delle masse come il “grillo parlante” fu per pinocchio, né, men che meno, mero “pungolo critico” dell'ordine costituito, addossando, per giunta, responsabilità a tutti tranne che a sé stesso: alle masse poiché ignoranti e indifferenti ed alla classe dominante perché cattiva e sfruttatrice. L'intellettuale che parteggia non si limita ad indignarsi. Non si chiama fuori dalla lotta di classe. Non è arbitro né giudice. Parteggia, invece. Prende parte. Diventa un intellettuale organico alle masse popolari.
L’intellettuale è organico alle masse popolari quando è al loro servizio. Indica loro come partecipare nella pratica della lotta e, in certo modo, vi partecipa egli stesso. Non si limita a fare appelli dall’alto di presunte levature morali. Fa vedere alle masse popolari il passo concreto che possono e devono fare per avanzare nella lotta per la loro emancipazione e per non subire oltre l'iniziativa della classe dominante. Le masse popolari, del resto, imparano dalla pratica, non da declamazioni o dagli appelli. All’intellettuale organico sta il compito di assimilare e praticare una nuova morale. Formarsi ideologicamente per indicare la strada ed essere da esempio. È la riforma intellettuale e morale di cui ci dice Gramsci che spetta all’intellettuale partigiano.
La questione principale è, allora, innanzitutto la formazione di intellettuali organici alle masse popolari. Intellettuali che conoscano le condizioni materiali e spirituali in cui le masse vivono poiché dalle masse oggi essi provengono e, quindi, alle masse appartengono. Questi intellettuali devono tenere conto soprattutto del fatto che la concezione dominante tra le masse popolari è sempre quella della classe dominante. Ragion per cui chi parla o pretende di spiegare lo stato di sottomissione ideologica e morale in cui le masse versano e si limita solo a questo altro non scopre che un dato di fatto. La questione non è, dunque, quella di spiegare uno stato di cose, ma di trasformarlo.
Chi aspira a diventare intellettuale organico, oggi, in particolare nel nostro paese, deve fare leva sulle contraddizioni pratiche che le masse vivono imparando a mobilitarne, organizzarne e dirigerne gli elementi più avanzati. Deve spingerli e educarli, nella pratica e l'esempio di condotta e di morale e, tramite questi, spingere ed educare parti crescenti di masse popolari ad organizzare autonomamente la loro vita sociale collettiva in funzione dei loro stessi bisogni e interessi, a disobbedire alle leggi imposte loro dalla classe dominante, a costruire le loro forme di organizzazione e di potere. È così che l’intellettuale partecipa alla lotta per l’emancipazione delle classi oppresse ed assume ruolo dirigente in quella lotta. È così che l’intellettuale si rende organico al processo per creare le condizioni per un governo di emergenza che risponda agli interessi immediati delle masse popolari, un governo delle masse popolari organizzate, il Governo di Blocco Popolare.
Parlare di intellettuali organici al plurale, però, non è corretto. Parlarne al plurale è come contrapporre alla somma degli intellettuali che pontificano sull’indifferenza delle masse una somma che, invece, si comporta nel modo giusto. Anche questo, in un certo senso, è approccio “moralista” e che non si eleva da quell’individualismo, fosse pure la sua somma, che è proprio agli intellettuali. Gli intellettuali organici sono, invece, forza collettiva. L’intellettuale organico alle masse è uno: il Partito. Un intellettuale collettivo, appunto. Parteggiare, allora, non è più solamente “prender parte”, “essere partigiano”. Parteggiare significa diventare partito, essere partito. È Gramsci stesso che matura questo passaggio, tra il 1917 e il 1921. Passaggio che è alla base del processo che portò la frazione comunista in seno al PSI a diventare Partito.
Il Partito è dirigente ed educatore collettivo. Analizza il movimento spontaneo delle masse e la loro coscienza, distingue il positivo dal negativo, elabora, cioè, la loro esperienza traendone bilancio e, da questo, costruisce teoria, per riportarla alle masse popolari, dando loro uno strumento perché ne sperimentino l’efficacia. Il Partito indica loro il passo concreto che possono fare, la concatenazione tra i passi che devono compiere e la prospettiva nella quale quei passi si inseriscono. Questa è la teoria rivoluzionaria che serve al movimento rivoluzionario. Questo concretamente significa, in questa fase storica, per il nostro paese in particolare, educare le masse ad avanzare per la costruzione del Governo di Blocco Popolare, che acutizzerà la lotta tra mobilitazione rivoluzionaria e mobilitazione reazionaria fino allo scontro aperto.

Il Partito dei CARC, in questa fase, ha il compito di creare le condizioni per il Governo di Blocco Popolare. I membri del Partito dei CARC, per diventare capaci di creare queste condizioni, devono trasformarsi, ovvero devono compiere la riforma intellettuale e morale, necessaria a questa fase storica. Necessaria a organizzare e dirigere la combattività diffusa della masse popolari. Il contributo scientifico su questa riforma che il Gramsci imprigionato dal Tribunale Speciale del Fascismo è di prima grandezza. Altro che “odiare gli indifferenti”, allora! Sono i comunisti, innanzitutto loro, noi, che dobbiamo trasformarci. La riforma morale ed intellettuale dei comunisti viene prima della riforma morale ed intellettuale delle masse popolari. Non si può chiedere, dunque, alle masse popolari che facciano già quello che i comunisti solo ora stanno imparando a fare. “Il problema delle masse popolari, del loro movimento di emancipazione dalla borghesia e dal clero, è il livello intellettuale e morale dei propri dirigenti. Le masse popolari dispiegano la loro combattività solo se si forma un Partito comunista capace di dirigerle. Finché non abbiamo raggiunto questo risultato, il fronte principale sta nella costruzione di un Partito di questo genere. Noi non lo siamo ancora”, si dice in VO48 (Elevare la nostra pratica all'altezza della nostra teoria, pp. 15-17).
Concretamente questo significa, per i comunisti, innanzitutto studiare e assimilare la teoria rivoluzionaria (riforma intellettuale) mettendo coerentemente al centro della loro vita la lotta di classe (riforma morale). La teoria è l'arma pratica della trasformazione di loro stessi e della società. La trasformazione della società è possibile se e solo se i comunisti “si connettono” – diceva Gramsci nei Quaderni – alle masse popolari, se non si limitano ad arringarle o, peggio ancora, ad odiare le loro arretratezze. Connettersi alle masse significa comprendere la dialettica e le concatenazioni tra le lotte particolari (lotta di vertenza o di difesa) e gli obiettivi politici generali (lotta rivoluzionaria) e, quindi, orientarle in modo che le lotte particolari vivano e si dispieghino in quella generale. Perché è la lotta generale, oggi, l’unica possibilità di vittoria concreta e non transitoria, delle lotte particolari. Saper parlare alle masse, dunque, significa innanzitutto imparare a farlo. Parlare alla mente delle masse e al loro cuore. Averne fiducia. Avere fiducia nella possibilità stessa della trasformazione e nella vittoria del movimento rivoluzionario. Amarle, in un certo senso.
La concezione comunista non è, però, – per dirla proprio con Gramsci – “focolaio di fede”. Avere fiducia nella trasformazione e nella vittoria della rivoluzione non significa averne approccio “religioso”. La concezione comunista che guida l’azione dei comunisti è strumento pratico dell'organizzazione cosciente della vita sociale collettiva delle masse popolari. È così che, ad esempio, in fabbrica, non basta affermare solo in linea di principio che è legittimo violare la disciplina aziendale (leggi antisciopero, straordinari obbligatori, ecc.) se questo è conforme agli interessi generali della classe operaia e, magari, prendersela con quanti ancora non lo capiscono, non vogliono capirlo o non sono d’accordo, ma occorre promuovere, concretamente, la mobilitazione morale e pratica degli elementi più avanzati della classe operaia affinché maturino coscienza della forza della classe operaia, che imparino a farla valere, che sperimentino misure pratiche di una governabilità alternativa rispetto a quella dei padroni. La forza della classe operaia è immediatamente nel suo numero – diceva già Marx – ma la classe operaia diventa forza politica in grado di trasformare il mondo sviluppando organizzazione e avanzando nella coscienza di essere classe rivoluzionaria che emancipando sé stessa, emancipa la società per intero. È sulla base di questo che costruire oggi Organizzazioni Operaie trasversali ai diversi stabilimenti o alle sigle sindacali di appartenenza dei singoli operai che si colleghino e si coordino con le Organizzazioni Popolari (comitati popolari, civici, di scopo o di quartiere, associazioni, collettivi, realtà dell'autorganizzazione sociale, ecc.) attive sul territorio dove quelle fabbriche sono situate, affinché imparino ad agire, insieme, come Nuove Autorità Pubbliche che contendono potere al potere costituito è oggi la chiave di volta per la costruzione della rivoluzione anche nel nostro paese, un paese imperialista nella sua peculiarità di Repubblica Pontificia. Così la resistenza sociale oggi diffusa tra le masse passa alla controffensiva organizzata, la resistenza spontanea o di vertenza all'iniziativa politica di masse popolari che sperimentano soluzioni concrete a bisogni concreti, forme di organizzazione autonome, governo popolare del territorio. Fanno scuola di comunismo, cioè nel corso delle loro lotte particolari comprendono il nesso tra la singola lotta e la lotta generale per la trasformazione rivoluzionaria della società, per fare dell’Italia un nuovo paese socialista.
Noi, comunisti italiani, abbiamo oggi il dovere e la necessità di riconsiderare in senso critico anche le parole di Gramsci, il più importante dirigente comunista del nostro paese. Farlo a maggior ragione considerando che il Gramsci che “odia” gli indifferenti non è ancora il Gramsci dirigente comunista del PCd’I e dell’Internazionale Comunista. Molto diverse – e spesso opposte – infatti, saranno le sue posizioni quando, per il suo ruolo politico, sarà incarcerato dal fascismo fino alla morte. 

Considerare criticamente le parole di Gramsci, leggerle nella giusta contestualizzazione storica e prospettiva, ci permette di riflettere innanzitutto sul rapporto tra comunisti e masse popolari. I comunisti si pongono in maniera diversa rispetto alle masse. Non sono sullo stesso livello delle masse popolari, ma ne sono avanguardia. Recriminare, dunque, sulle “arretratezze delle masse popolari” significa scaricare sulle masse le proprie responsabilità di dirigenti. Questa è l’attitudine della sinistra borghese quando parte dalla falsa premessa che l’uguaglianza sia un dato di partenza – basta, forse, declamare l’uguaglianza affinché l’uguaglianza ci sia? – e non, invece, un punto di arrivo,  un obiettivo della lotta per il socialismo. In una società divisa in classi non siamo tutti uguali, non partiamo dallo stesso punto e, quindi, non abbiamo tutti la stessa capacità di comprendere la realtà. La sinistra borghese fa propria la concezione della borghesia secondo cui l’uguaglianza è realizzata, perché, formalmente, siamo tutti uguali di fronte alla legge, tutti godiamo degli stessi diritti civili e politici attivi e passivi, tutti hanno le stesse possibilità di capire e la libertà di fare. Ne consegue che chi non capisce, non capisce per sua stupidità, chi non si libera, non si libera per sua viltà. La sinistra borghese fa propria questa concezione nel modo distorto, rovesciato, come fece Pasolini al tempo o Eco, più di recente: se proletari e operai pensano ormai come i borghesi, l’unica speranza dell’umanità sarebbero coloro “che capiscono come vanno le cose” e che, in quanto tali, sono “diversi”, i “differenti” e perciò migliori. Il resto – per citare proprio Eco – semplicemente dei “coglioni”.
Odiare le masse popolari è considerarsi altro da loro, al di sopra di loro. In entrambi i casi, è ignoranza della giusta dialettica tra comunisti e masse popolari, per ingenuità o per malafede. Noi comunisti, invece, non possiamo né dobbiamo ripetere acriticamente le parole di Gramsci né esaltarle. Dobbiamo riflettere, distinguere, esercitarci criticamente per formarci come dirigenti delle masse. “Il legame tra i dirigenti (i comunisti) e le masse non consiste principalmente nel trasmettere la coscienza comunista alle masse, ma consiste principalmente nel far partecipare le masse, nella pratica, alla Guerra Popolare Rivoluzionaria. Per farlo, i comunisti fanno leva sulle contraddizioni pratiche che le masse vivono, sulle condizioni di coscienza in cui le masse si ritrovano, sul ruolo della sinistra delle masse e le sue distinte relazioni con il centro e con la destra, ecc. [Questa è la linea di massa: il principale strumento di direzione dei comunisti tra le masse popolari, ndr.]. La riforma intellettuale e morale è attuale e urgente per i comunisti, per quanti vogliono essere e fare i comunisti (per questo oggi la riforma morale e intellettuale come processo urgente e pratico è incomprensibile agli esponenti della sinistra borghese e a tutti quelli che sono succubi alle sue concezioni e non è accettata da quanti, nelle nostre fila, si ostinano a restare a un'adesione identitaria al socialismo).” (P.CARC, Circ. DN 17/2014).

Un’ultima considerazione: l’indifferenza presuppone l’idea che, generalmente, le masse popolari conducano la loro vita e il loro lavoro placidamente, per quanto miserevole possa essere, senza curarsi delle soluzioni della loro condizione, senza curarsi della loro emancipazione, accettando passivamente, con bovina quiescenza, lo stato in cui versano. Presuppone l’idea che le masse popolari siano, in un certo senso, “pacificate”. Presuppone che il popolo sia bue. L’analisi concreta della situazione concreta ci consente davvero di dire che le masse sono generalmente “pacificate”, indifferenti, placide? In realtà, il movimento di resistenza sociale spontanea alla crisi – la parte più avanzata delle masse popolari – è diffuso da un capo all'altro del Paese (anche geograficamente, dalla Val di Susa in Piemonte, a Niscemi in Sicilia). Gli elementi di ingovernabilità, per la classe dominante, si moltiplicano ovunque, seppur in maniera ancora non organizzata: dall'occupazione spontanea delle case, agli scioperi fiscali o dei ticket sanitari, da comitati civici che si occupano dei loro territori (pulizie, recupero parchi, ecc.) al ritorno della lotta operaia (gli scioperi che si susseguono e i 148 fronti di vertenza aperti dai lavoratori in altrettanti stabilimenti). Questo è ben altro che “indifferenza”! Oggi le masse sono pronte alla mobilitazione. Anzi, la loro mobilitazione, rivoluzionaria se condotta dai comunisti o reazionaria se lasciata alla direzione della borghesia e del suo clero, è il terreno principale di contesa della lotta di classe. Concentrarsi, dunque, sugli elementi più avanzati e coscienti delle masse popolari è quanto è necessario per orientarne e dirigerne la mobilitazione e l'organizzazione, ovvero per creare le condizioni del Governo di Blocco Popolare. 

Il ruolo dei comunisti è questo ed è determinante. La nostra formazione come intellettuali organici alle masse ed alla classe operaia più necessaria che mai. La riforma intellettuale e morale innanzitutto nostra (dei comunisti), per adeguare la nostra pratica all'altezza della nostra teoria, è urgente e preliminare.
In conclusione, i comunisti non odiano gli indifferenti. I comunisti si formano come intellettuali organici alle masse ed alla classe operaia, portando loro la coscienza che viene dalla pratica del ruolo storico che hanno. Questo significa costruire la rivoluzione, costruire il socialismo, per la prima volta nella storia in un paese imperialista. Questo, in definitiva, è l’atto di amore più grande, la più alta “connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione” di cui parla Gramsci in carcere, quando di fronte ai boia fascisti, la scienza che ha acquisito come dirigente comunista lo rende fermo nella concezione del mondo e nella fiducia nelle masse popolari. Altro che odiare gli indifferenti! Gli “indifferenti” sono il terreno di battaglia dello scontro tra mobilitazione rivoluzionaria e mobilitazione reazionaria. Nella guerra che oppone noi comunisti allo Stato della borghesia imperialista, dobbiamo e possiamo conquistarne menti e cuori.