Per una riflessione Su Gramsci, Odio
gli indifferenti, La Città Futura, unico numero, 17 febbraio 1917.
A quasi 100 anni dalla
pubblicazione.
(di Igor Papaleo, Commissione Gramsci del Partito del CARC)
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere
partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano.
L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita”. È una
delle più note e citate frasi di Antonio Gramsci. Secondo alcuni è un monito, secondo
altri, un insegnamento. Per tutti quelli che la citano è convinzione che le
cose non accadono tanto per opera di una ristretta minoranza (la classe
dominante), ma piuttosto perché l'indifferenza della stragrande maggioranza (le
masse popolari) lascia che accadano. Ciò che succede avverrebbe, quindi, perché
le masse popolari non esercitano la loro volontà, lasciano che si varino leggi
contro di loro, permettono che a governare siano persone indegne di
amministrare la cosa pubblica. Si limitano, in alcuni casi, a lamentarsi delle
miserie della vita e dell'umanità. Protestano. Rivendicano. Non agiscono.
Questa idea che le cose vanno male
“perché le masse non si ribellano” è un pregiudizio molto diffuso. È una forma
di opportunismo con cui fino a che si può ci si accontenta di ritenersi
migliori degli altri come “differenti” rispetto agli “indifferenti”. Questo
opportunismo diventa malafede per chi del diffondere simili pregiudizi ne fa un
mestiere e cioè gli “intellettuali”, quelli che si qualificano tanto spesso
come “intellettuali di sinistra”. Questi intellettuali manifestano sdegno e
ostentano superiorità. Citano il Gramsci dell’“odio per gli indifferenti”
perché, secondo loro, ognuno dovrebbe chiedersi “se avessi fatto anch'io il mio dovere, se
avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è
successo? Le cose andrebbero così male?”. O meglio, più precisamente, credendo
che il loro ruolo si esaurisca nel dire quello che gli altri devono o dovrebbero
fare, si domandano: “perché le masse popolari sono così sciocche da non
accorgersi di quanto accade, da non ribellarsi a questo stato di cose, da non
esercitare la propria volontà contro chi le sfrutta e le umilia?” In una sola
espressione, “perché le masse sono così indifferenti alla sorte riservata loro
da chi gestisce il potere? Eppure le cose sono così evidenti!” La conclusione
cui questi intellettuali giungono è che le masse popolari sono ignoranti, arretrate
e perciò sono indifferenti. Sostengono, più o meno apertamente, che oggi che un
certo accesso all'istruzione pure è ancora garantito poiché conquistato, in
altri anni, anche al prezzo di dure lotte, l'ignoranza è una colpa odiosa. L'indifferenza
anche. Quindi, gli indifferenti vanno odiati. Questi intellettuali odiano gli
indifferenti. Odiano chi non parteggia, dicono.
Parteggiare significa essere o prender parte a qualcosa o
per qualcosa. Viene da chiedersi: questi intellettuali che citano Gramsci, per
chi parteggiano? Fanno appello alle masse popolari, eppure le odiano, perché
odiano la loro indifferenza. Puntano il dito contro gli sfruttatori, eppure non
rispondono alla domanda che essi stessi si pongono (“se avessi fatto anch'io il
mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo
ciò che è successo?”) scaricandola sulle masse. Da che parte stanno questi
intellettuali? Qual è effettivamente il loro ruolo? Qual è il ruolo
dell'intellettuale in relazione alle masse popolari ed il rapporto tra questi e
quelle? Ecco la domanda chiave.
L'intellettuale parteggia se non si limita ad esporre tesi o
a fare opinioni. Non può limitarsi ad essere presunta coscienza critica delle
masse come il “grillo parlante” fu per pinocchio, né, men che meno, mero
“pungolo critico” dell'ordine costituito, addossando, per giunta,
responsabilità a tutti tranne che a sé stesso: alle masse poiché ignoranti e
indifferenti ed alla classe dominante perché cattiva e sfruttatrice.
L'intellettuale che parteggia non si limita ad indignarsi. Non si chiama fuori
dalla lotta di classe. Non è arbitro né giudice. Parteggia, invece. Prende
parte. Diventa un intellettuale organico alle masse popolari.
L’intellettuale è organico alle masse popolari quando è al
loro servizio. Indica loro come partecipare nella pratica della lotta e, in
certo modo, vi partecipa egli stesso. Non si limita a fare appelli dall’alto di
presunte levature morali. Fa vedere alle masse popolari il passo concreto che
possono e devono fare per avanzare nella lotta per la loro emancipazione e per
non subire oltre l'iniziativa della classe dominante. Le masse popolari, del
resto, imparano dalla pratica, non da declamazioni o dagli appelli.
All’intellettuale organico sta il compito di assimilare e praticare una nuova
morale. Formarsi ideologicamente per indicare la strada ed essere da esempio. È
la riforma intellettuale e morale di cui ci dice Gramsci che spetta
all’intellettuale partigiano.
La questione principale è, allora, innanzitutto la
formazione di intellettuali organici alle masse popolari. Intellettuali che
conoscano le condizioni materiali e spirituali in cui le masse vivono poiché
dalle masse oggi essi provengono e, quindi, alle masse appartengono. Questi
intellettuali devono tenere conto soprattutto del fatto che la concezione
dominante tra le masse popolari è sempre quella della classe dominante. Ragion
per cui chi parla o pretende di spiegare lo stato di sottomissione ideologica e
morale in cui le masse versano e si limita solo a questo altro non scopre che
un dato di fatto. La questione non è, dunque, quella di spiegare uno stato di
cose, ma di trasformarlo.
Chi aspira a diventare intellettuale organico, oggi, in
particolare nel nostro paese, deve fare leva sulle contraddizioni pratiche che
le masse vivono imparando a mobilitarne, organizzarne e dirigerne gli elementi
più avanzati. Deve spingerli e educarli, nella pratica e l'esempio di condotta
e di morale e, tramite questi, spingere ed educare parti crescenti di masse
popolari ad organizzare autonomamente la loro vita sociale collettiva in
funzione dei loro stessi bisogni e interessi, a disobbedire alle leggi imposte
loro dalla classe dominante, a costruire le loro forme di organizzazione e di
potere. È così che l’intellettuale partecipa alla lotta per l’emancipazione
delle classi oppresse ed assume ruolo dirigente in quella lotta. È così che
l’intellettuale si rende organico al processo per creare le condizioni per un
governo di emergenza che risponda agli interessi immediati delle masse popolari,
un governo delle masse popolari organizzate, il Governo di Blocco Popolare.
Parlare di intellettuali organici al plurale, però, non è
corretto. Parlarne al plurale è come contrapporre alla somma degli intellettuali
che pontificano sull’indifferenza delle masse una somma che, invece, si
comporta nel modo giusto. Anche questo, in un certo senso, è approccio
“moralista” e che non si eleva da quell’individualismo, fosse pure la sua
somma, che è proprio agli intellettuali. Gli intellettuali organici sono,
invece, forza collettiva. L’intellettuale organico alle masse è uno: il Partito.
Un intellettuale collettivo, appunto. Parteggiare, allora, non è più solamente
“prender parte”, “essere partigiano”. Parteggiare significa diventare partito,
essere partito. È Gramsci stesso che matura questo passaggio, tra il 1917 e il
1921. Passaggio che è alla base del processo che portò la frazione comunista in
seno al PSI a diventare Partito.
Il Partito è dirigente ed educatore collettivo. Analizza il movimento
spontaneo delle masse e la loro coscienza, distingue il positivo dal negativo, elabora,
cioè, la loro esperienza traendone bilancio e, da questo, costruisce teoria,
per riportarla alle masse popolari, dando loro uno strumento perché ne
sperimentino l’efficacia. Il Partito indica loro il passo concreto che possono
fare, la concatenazione tra i passi che devono compiere e la prospettiva nella
quale quei passi si inseriscono. Questa è la teoria rivoluzionaria che serve al
movimento rivoluzionario. Questo concretamente significa, in questa fase storica,
per il nostro paese in particolare, educare le masse ad avanzare per la
costruzione del Governo di Blocco Popolare, che acutizzerà la lotta tra
mobilitazione rivoluzionaria e mobilitazione reazionaria fino allo scontro
aperto.
Il Partito dei CARC, in questa fase, ha il compito di creare
le condizioni per il Governo di Blocco Popolare. I membri del Partito dei CARC,
per diventare capaci di creare queste condizioni, devono trasformarsi, ovvero
devono compiere la riforma intellettuale e morale, necessaria a questa fase
storica. Necessaria a organizzare e dirigere la combattività diffusa della
masse popolari. Il contributo scientifico su questa riforma che il Gramsci
imprigionato dal Tribunale Speciale del Fascismo è di prima grandezza. Altro
che “odiare gli indifferenti”, allora! Sono i comunisti, innanzitutto loro,
noi, che dobbiamo trasformarci. La riforma morale ed intellettuale dei
comunisti viene prima della riforma morale ed intellettuale delle masse
popolari. Non si può chiedere, dunque, alle masse popolari che facciano già
quello che i comunisti solo ora stanno imparando a fare. “Il problema delle
masse popolari, del loro movimento di emancipazione dalla borghesia e dal
clero, è il livello intellettuale e morale dei propri dirigenti. Le masse popolari
dispiegano la loro combattività solo se si forma un Partito comunista capace di
dirigerle. Finché non abbiamo raggiunto questo risultato, il fronte principale
sta nella costruzione di un Partito di questo genere. Noi non lo siamo ancora”,
si dice in VO48 (Elevare la nostra
pratica all'altezza della nostra teoria, pp. 15-17).
Concretamente questo significa, per i comunisti,
innanzitutto studiare e assimilare la teoria rivoluzionaria (riforma
intellettuale) mettendo coerentemente al centro della loro vita la lotta di
classe (riforma morale). La teoria è l'arma pratica della trasformazione di
loro stessi e della società. La trasformazione della società è possibile se e
solo se i comunisti “si connettono” – diceva Gramsci nei Quaderni – alle masse
popolari, se non si limitano ad arringarle o, peggio ancora, ad odiare le loro
arretratezze. Connettersi alle masse significa comprendere la dialettica e le
concatenazioni tra le lotte particolari (lotta di vertenza o di difesa) e gli
obiettivi politici generali (lotta rivoluzionaria) e, quindi, orientarle in
modo che le lotte particolari vivano e si dispieghino in quella generale.
Perché è la lotta generale, oggi, l’unica possibilità di vittoria concreta e
non transitoria, delle lotte particolari. Saper parlare alle masse, dunque,
significa innanzitutto imparare a farlo. Parlare alla mente delle masse e al
loro cuore. Averne fiducia. Avere fiducia nella possibilità stessa della
trasformazione e nella vittoria del movimento rivoluzionario. Amarle, in un
certo senso.
La concezione comunista non è, però, – per dirla proprio con
Gramsci – “focolaio di fede”. Avere fiducia nella trasformazione e nella
vittoria della rivoluzione non significa averne approccio “religioso”. La
concezione comunista che guida l’azione dei comunisti è strumento pratico
dell'organizzazione cosciente della vita sociale collettiva delle masse
popolari. È così che, ad esempio, in fabbrica, non basta affermare solo in linea
di principio che è legittimo violare la disciplina aziendale (leggi antisciopero,
straordinari obbligatori, ecc.) se questo è conforme agli interessi generali
della classe operaia e, magari, prendersela con quanti ancora non lo capiscono,
non vogliono capirlo o non sono d’accordo, ma occorre promuovere, concretamente,
la mobilitazione morale e pratica degli elementi più avanzati della classe
operaia affinché maturino coscienza della forza della classe operaia, che
imparino a farla valere, che sperimentino misure pratiche di una governabilità
alternativa rispetto a quella dei padroni. La forza della classe operaia è
immediatamente nel suo numero – diceva già Marx – ma la classe operaia diventa
forza politica in grado di trasformare il mondo sviluppando organizzazione e
avanzando nella coscienza di essere classe rivoluzionaria che emancipando sé
stessa, emancipa la società per intero. È sulla base di questo che costruire
oggi Organizzazioni Operaie trasversali ai diversi stabilimenti o alle sigle
sindacali di appartenenza dei singoli operai che si colleghino e si coordino
con le Organizzazioni Popolari (comitati popolari, civici, di scopo o di
quartiere, associazioni, collettivi, realtà dell'autorganizzazione sociale, ecc.)
attive sul territorio dove quelle fabbriche sono situate, affinché imparino ad
agire, insieme, come Nuove Autorità Pubbliche che contendono potere al potere
costituito è oggi la chiave di volta per la costruzione della rivoluzione anche
nel nostro paese, un paese imperialista nella sua peculiarità di Repubblica
Pontificia. Così la resistenza sociale oggi diffusa tra le masse passa alla
controffensiva organizzata, la resistenza spontanea o di vertenza
all'iniziativa politica di masse popolari che sperimentano soluzioni concrete a
bisogni concreti, forme di organizzazione autonome, governo popolare del
territorio. Fanno scuola di comunismo, cioè nel corso delle loro lotte
particolari comprendono il nesso tra la singola lotta e la lotta generale per
la trasformazione rivoluzionaria della società, per fare dell’Italia un nuovo
paese socialista.
Noi, comunisti italiani, abbiamo oggi il dovere e la
necessità di riconsiderare in senso critico anche le parole di Gramsci, il più
importante dirigente comunista del nostro paese. Farlo a maggior ragione
considerando che il Gramsci che “odia” gli indifferenti non è ancora il Gramsci
dirigente comunista del PCd’I e dell’Internazionale Comunista. Molto diverse – e
spesso opposte – infatti, saranno le sue posizioni quando, per il suo ruolo
politico, sarà incarcerato dal fascismo fino alla morte.
Considerare criticamente le parole di Gramsci, leggerle
nella giusta contestualizzazione storica e prospettiva, ci permette di riflettere
innanzitutto sul rapporto tra comunisti e masse popolari. I comunisti si
pongono in maniera diversa rispetto alle masse. Non sono sullo stesso livello
delle masse popolari, ma ne sono avanguardia. Recriminare, dunque, sulle “arretratezze
delle masse popolari” significa scaricare sulle masse le proprie responsabilità
di dirigenti. Questa è l’attitudine della sinistra borghese quando parte dalla
falsa premessa che l’uguaglianza sia un dato di partenza – basta, forse,
declamare l’uguaglianza affinché l’uguaglianza ci sia? – e non, invece, un
punto di arrivo, un obiettivo della
lotta per il socialismo. In una società divisa in classi non siamo tutti uguali,
non partiamo dallo stesso punto e, quindi, non abbiamo tutti la stessa capacità
di comprendere la realtà. La sinistra borghese fa propria la concezione della
borghesia secondo cui l’uguaglianza è realizzata, perché, formalmente, siamo
tutti uguali di fronte alla legge, tutti godiamo degli stessi diritti civili e
politici attivi e passivi, tutti hanno le stesse possibilità di capire e la libertà
di fare. Ne consegue che chi non capisce, non capisce per sua stupidità, chi
non si libera, non si libera per sua viltà. La sinistra borghese fa propria
questa concezione nel modo distorto, rovesciato, come fece Pasolini al tempo o
Eco, più di recente: se proletari e operai pensano ormai come i borghesi, l’unica
speranza dell’umanità sarebbero coloro “che capiscono come vanno le cose” e
che, in quanto tali, sono “diversi”, i “differenti” e perciò migliori. Il resto
– per citare proprio Eco – semplicemente dei “coglioni”.
Odiare le masse popolari è considerarsi altro da loro, al di
sopra di loro. In entrambi i casi, è ignoranza della giusta dialettica tra
comunisti e masse popolari, per ingenuità o per malafede. Noi comunisti,
invece, non possiamo né dobbiamo ripetere acriticamente le parole di Gramsci né
esaltarle. Dobbiamo riflettere, distinguere, esercitarci criticamente per
formarci come dirigenti delle masse. “Il legame tra i dirigenti (i comunisti) e
le masse non consiste principalmente nel trasmettere la coscienza comunista
alle masse, ma consiste principalmente nel far partecipare le masse, nella
pratica, alla Guerra Popolare Rivoluzionaria. Per farlo, i comunisti fanno leva
sulle contraddizioni pratiche che le masse vivono, sulle condizioni di
coscienza in cui le masse si ritrovano, sul ruolo della sinistra delle masse e
le sue distinte relazioni con il centro e con la destra, ecc. [Questa è la
linea di massa: il principale strumento di direzione dei comunisti tra le masse
popolari, ndr.]. La riforma intellettuale
e morale è attuale e urgente per i comunisti, per quanti vogliono essere e fare
i comunisti (per questo oggi la riforma morale e intellettuale come processo
urgente e pratico è incomprensibile agli esponenti della sinistra borghese e a
tutti quelli che sono succubi alle sue concezioni e non è accettata da quanti,
nelle nostre fila, si ostinano a restare a un'adesione identitaria al
socialismo).” (P.CARC, Circ. DN 17/2014).
Un’ultima considerazione: l’indifferenza presuppone l’idea
che, generalmente, le masse popolari conducano la loro vita e il loro lavoro
placidamente, per quanto miserevole possa essere, senza curarsi delle soluzioni
della loro condizione, senza curarsi della loro emancipazione, accettando
passivamente, con bovina quiescenza, lo stato in cui versano. Presuppone l’idea
che le masse popolari siano, in un certo senso, “pacificate”. Presuppone che il
popolo sia bue. L’analisi concreta della situazione concreta ci consente
davvero di dire che le masse sono generalmente “pacificate”, indifferenti,
placide? In realtà, il movimento di resistenza sociale spontanea alla crisi –
la parte più avanzata delle masse popolari – è diffuso da un capo all'altro del
Paese (anche geograficamente, dalla Val di Susa in Piemonte, a Niscemi in
Sicilia). Gli elementi di ingovernabilità, per la classe dominante, si
moltiplicano ovunque, seppur in maniera ancora non organizzata: dall'occupazione
spontanea delle case, agli scioperi fiscali o dei ticket sanitari, da comitati
civici che si occupano dei loro territori (pulizie, recupero parchi, ecc.) al
ritorno della lotta operaia (gli scioperi che si susseguono e i 148 fronti di
vertenza aperti dai lavoratori in altrettanti stabilimenti). Questo è ben altro
che “indifferenza”! Oggi le masse sono pronte alla mobilitazione. Anzi, la loro
mobilitazione, rivoluzionaria se condotta dai comunisti o reazionaria se
lasciata alla direzione della borghesia e del suo clero, è il terreno
principale di contesa della lotta di classe. Concentrarsi, dunque, sugli
elementi più avanzati e coscienti delle masse popolari è quanto è necessario
per orientarne e dirigerne la mobilitazione e l'organizzazione, ovvero per creare
le condizioni del Governo di Blocco Popolare.
Il ruolo dei comunisti è questo ed è determinante. La nostra formazione come intellettuali organici alle masse ed alla classe operaia più necessaria che mai. La riforma intellettuale e morale innanzitutto nostra (dei comunisti), per adeguare la nostra pratica all'altezza della nostra teoria, è urgente e preliminare.
In conclusione, i comunisti non odiano gli indifferenti. I
comunisti si formano come intellettuali organici alle masse ed alla classe
operaia, portando loro la coscienza che viene dalla pratica del ruolo storico
che hanno. Questo significa costruire la rivoluzione, costruire il socialismo, per
la prima volta nella storia in un paese imperialista. Questo, in definitiva, è
l’atto di amore più grande, la più alta “connessione
sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione” di cui parla Gramsci in
carcere, quando di fronte ai boia fascisti, la scienza che ha acquisito come
dirigente comunista lo rende fermo nella concezione del mondo e nella fiducia
nelle masse popolari. Altro che odiare gli indifferenti! Gli “indifferenti”
sono il terreno di battaglia dello scontro tra mobilitazione rivoluzionaria e
mobilitazione reazionaria. Nella guerra che oppone noi comunisti allo Stato della borghesia imperialista, dobbiamo e possiamo conquistarne menti e cuori.