"[...] nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, tutto l’interesse si appunta sulle armi più immediate, sui problemi di tattica, in politica e sui minori problemi culturali nel campo filosofico. Ma dal momento in cui un gruppo subalterno diventa realmente autonomo ed egemone suscitando un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente l’esigenza di costruire un nuovo ordine intellettuale e morale, cioè un nuovo tipo di società e quindi l’esigenza di elaborare i concetti più universali, le armi ideologiche più raffinate e decisive. [...] Si può così porre la lotta per una cultura superiore autonoma; la parte positiva della lotta che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a‑ privativi e gli anti‑ (anticlericalismo, ateismo, ecc.). Si dà una forma moderna e attuale all’umanesimo laico tradizionale che deve essere la base etica del nuovo tipo di Stato." (Antonio Gramsci, Q 11, nota 70)

lunedì 20 giugno 2016

SOLDI AL SICURO

Secondo il senso comune i risparmi vanno messi in banca, e anche chi ha uno stipendio da diversi decenni non lo riceve più in contanti, ma in banca deve per forza andare a ritirarlo. In realtà le banche sono uno dei centri più importanti degli effetti devastanti crisi in corso, luoghi che assorbono denaro da ogni parte possibile e dove il denaro si dissolve all’improvviso e in quantità enormi, per ragioni che restano misteriose, e non nel senso che vengono tenute nascoste alle masse popolari, ma nel senso che i massimi economisti borghesi non riescono a comprenderle nemmeno loro. I preti, che c’entrano perché fanno parte del Vaticano, struttura che si regge su un potere finanziario enorme e particolarmente forte in Italia, nemmeno si curano di spiegare misteri del genere, abituati come sono a spacciare in lungo e in largo “misteri della fede” che le masse popolari devono accettare come dati di fatto così come le pecore seguono la linea data dal pastore e dai suoi cani. I preti c’entrano poi perché sono i primi che volteggiano e piombano sul luogo del delitto, come “rappresentanti delle vittime”, monopolisti dei funerali, cosa accaduta anche nel caso dell’operaio Bedin, suicida a Montebello Vicentino, derubato dei suoi risparmi dal vinaio Zonin. I soldi gli servivano per la casa di riposo, perché da qualche decennio a questa parte ci vogliono due o tremila euro al mese come minimo per garantirsi una vecchiaia dignitosa, quando i parenti non sono in grado di farsi carico di assistenze tanto più gravose quanto più si perde autonomia. Pare normale che un operaio metta i risparmi, quando ne ha, in banca. Pare invece strano, secondo il senso comune e anche secondo molti che si dichiarano di sinistra, ma pare strano anche nel movimento comunista, che chi ha denaro lo metta a disposizione del partito, cioè di un partito comunista. Questo però è avvenuto e avviene più volte, in Italia, ad esempio, nel Biennio Rosso rispetto al movimento operaio, come ricorda Gramsci nei suoi scritti sull’occupazione delle fabbriche, e durante la Resistenza rispetto al movimento partigiano. Oggi la situazione è critica come lo fu a quei tempi, anche se diversa perché i nodi allora irrisolti vengono al pettine e il movimento comunista ha trovato il modo per scioglierli.
Per il partito dei CARC, che di questo movimento comunista è punta avanzata, ad esempio, la natura della crisi e le sue evoluzioni possibili non sono affatto un mistero, e conoscere la causa di un problema è essenziale per la soluzione. A fronte della confusione crescente, tanto maggiore quando si tratta di capire come gestire il denaro, senza il quale in questa società non si vive, cominciamo a spazzare via un po’ di nebbia e diciamo che mettere il denaro in mano al partito è il modo migliore per “metterlo al sicuro”, perché il movimento comunista sta costruendo il futuro del paese, e ogni euro a sua disposizione è seme di vaste messi e fa fiorire prati.  

L’articolo: Popolare Vicenza rabbia ai funerali del suicida: lo Stato faccia giustizia (La Repubblica, 19 giugno) 
Centinaia di persone a salutare Bedin. Presidio silenzioso alla tenuta di Zonin Don Torta: “Questo è un omicidio” Franco Vanni, dal nostro inviato, Montebello Vicentino.
Di fronte alla bara, don Enrico Torta scandisce: «Rappresentiamo le duecentomila famiglie unite nella tragedia. Serve giustizia. Il governo deve sapere cosa succede qui in Veneto». Le centinaia di piccoli risparmiatori si alzano, applaudono, qualcuno piange. Sono quasi tutti anziani. Alcuni nel crac della Popolare di Vicenza hanno perso molto. Altri hanno perso tutto. Nella cassa c’è il corpo di Antonio Bedin, morto suicida a 67 anni. Aveva investito in azioni BpVi i risparmi di una vita in fabbrica. Era cardiopatico e camminava con fatica. Il crollo dei titoli, da 62,5 euro a 10 centesimi, gli ha tolto la speranza di un futuro in casa di riposo. Prima che la bara venga portata a spalle fuori dalla chiesa, Don Torta rincara: «Ricordiamo un fratello, smarrito per la violenza e la prepotenza di altri. Gesù ha detto: beati coloro che si impegnano per la giustizia. La giustizia è rispetto per la dignità delle persone e per il bene comune. Dio ha detto: non rubare, non uccidere. Gli uomini hanno ucciso, Dio li resusciterà». Fuori dalla parrocchia, si forma un corteo. I carabinieri lo scortano orgogliosi. In testa, gli striscioni. “Basta suicidi per colpa delle banche”, “Omicidio di Stato”, “Rubare i risparmi è uccidere”. In coda, il sindaco di Montebello, Dino Magnabosco. Gli anziani gli chiedono: «Ora cosa facciamo?», «Chi ci aiuta?». Lui ascolta, gentile. La manifestazione scorre silenziosa fino alla villa di Gianni Zonin, presidente di BpVi per 19 anni, fino allo scorso novembre. Di fronte alle imposte chiuse, i risparmiatori si sfogano. «Ladro», «assassino », urlano donne ottantenni, piccoli imprenditori, ex insegnanti. La procura di Vicenza indaga Zonin e altri cinque ex manager della banca per aggiotaggio e ostacolo della vigilanza. I pm di Prato, Udine e Ancona hanno aperto fascicoli per estorsione. La Banca centrale europea, come raccontato da Repubblica, ha ricostruito che BpVi per ricapitalizzarsi fra il 2013 e il 2014 ha venduto azioni a 58mila nuovi soci, non in grado di comprendere cosa stavano acquistando. La vendita di azioni era proposta come condizione per accedere a finanziamenti. Operazioni che un’ordinanza del giudice Anna Maria Marra, del tribunale di Venezia, ha dichiarato nulle. Il provvedimento che potrebbe inibire la banca dal pretendere la restituzione delle somme prestate. In piazza a Montello ieri c’erano le associazioni che lottano perchè i danneggiati siano rimborsati, dall’associazione nazionale azionisti della Popolare di Vicenza al gruppo Noi che credevamo nella Banca Popolare di Vicenza, che in mattinata ha manifestato di fronte alla sede della banca. Oltre al sindaco, nessun rappresentante delle istituzioni. L’unico politico in corteo era Jacopo Berti, capogruppo in Regione del Movimento Cinque Stelle, che portò la questione di BpVi a Strasburgo . «Essere qui è un dovere. Mi stupisce di essere così solo», dice, alla fine del corteo.

INDICAZIONI DI VOTO DEL 18 GIUGNO

Gramsci voterebbe contro il PD anche a Torino Gramsci a Torino ha patito il freddo e la fame, nel senso che con il denaro che aveva doveva decidere se pagarsi un cappotto o un pasto. La casa in cui abitava, e in cui doveva decidere queste cose, è stata trasformata in un hotel di lusso, chiamato Hotel Gramsci due anni fa, nella città amministrata da Fassino, il quale appartiene a un partito che di Gramsci si dichiara erede. Oscenità di questo genere si possono affrontare in modo sereno solo con la fiducia di portare a termine ciò che Gramsci si pose come compito, e per cui diede la vita, cioè fare dell’Italia un paese socialista. La casa di Gramsci potrà diventare una scuola dove le masse popolari del nostro paese studieranno economia, politica, filosofica, unite in una unica scienza che le farà capaci di dirigere la propria vita e la vita del paese. Riprenderemo ciò che ci è stato tolto: già i fascisti si impadronirono delle case del popolo, e dopo la Resistenza ritornarono al movimento comunista solide più di prima, e così farà il nuovo movimento comunista con quanto ci è stato sottratto da banche, politici corrotti e quant’altro. La rivoluzione si costruisce passo dopo passo, come Gramsci sapeva, e il passo odierno sta nel togliere di mezzo questo governo PD che è la versione in avanzato stato di putrefazione del vecchio regime democristiano, cosa a cui accenna anche d’Orsi, altro studioso di Gramsci che si affianca a Guido Liguori nel dare indicazione di voto per il Movimento Cinque Stelle, in questo articolo su Micromega.

Contro il sistema Torino, contro il sistema Italia
di Angelo d’Orsi (Micromega 4/2016, in http://temi.repubblica.it/micromega-online/contro-il-sistema-torino-contro-il-sistema-italia/#.V2Q17fSr_BM.facebook)
Alberto Asor Rosa, un “cattivo maestro” che stimo da sempre, due giorni fa sul Manifesto, ha firmato un articolo allucinante, il cui succo è che per sconfiggere Renzi occorre votare per i candidati PD. Concordo sul fatto che un’alleanza di centrosinistra avrà bisogno non tanto del PD (come sostiene Asor Rosa), quanto piuttosto di una parte cospicua del suo “popolo”, ma per ora occorre lottare contro questo PD, che io ritengo irrecuperabile, come lo fu la DC, di cui sostanzialmente ha preso il posto nella scena politica nazionale. Il che vuol dire che questo PD deve essere sgretolato, e se c’è una parte “sana” nella sua classe politica non deve attendere oltre per rompere con Renzi e uscire dalla porta principale. La fedeltà alla “ditta”, per riprendere la stolta terminologia di Bersani, è del tutto fuori luogo. E chi oggi rimane dentro, finendo per fare ogni volta quello che il capo comanda, si assume responsabilità gravi davanti al suo stesso elettorato. Questo PD, oggi impegnato nelle ultime battute di una pessima campagna elettorale, rappresenta un grumo di interessi di cricche, di gruppi di pressione di varia natura, e in generale rappresenta la vera destra sociale oggi nel paese. In più, da quando è al suo governo Matteo Renzi, il partito è divenuto un suo feudo personale, di cui dispone a piacimento, una base per costruire consenso nella mappa nazionale, e piazzare in sede locale una serie innumerevole di fedelissimi, a gestire gli enti territoriali. Le elezioni che si stanno per concludere nel loro secondo turno (legge a mio avviso sciagurata), hanno un chiarissimo, forte significato politico nazionale, a dispetto delle reiterate dichiarazioni di Renzi, che subodorando la sconfitta (già in parte incassata al primo turno), cerca di derubricarle a fatto locale. E non c’è dubbio che l’esito positivo ai ballottaggi dei candidati sostenuti da Renzi sarebbe da lui annessa al carniere delle sue proprie vittorie personali, secondo del resto la ben nota logica della vittoria che trova subito almeno un padre mentre la sconfitta solitamente è orfana. E si tratterebbe di un passo per lui importante, nella corsa a cui ha impresso una formidabile accelerazione verso l’ottobre referendario. La logica dell’“o con me o contro di me”, insomma avrebbe funzionato, e la lotta contro la “deforma” costituzionale e l’osceno Italicum, ne uscirebbe indebolita. Ma non è certo questa la ragione numero 1 per non sostenere i candidati del PD ai ballottaggi, e in generale in queste elezioni. Certo, come si è visto al primo turno, la sinistra quando si è presentata come tale, con i suoi quarti di nobiltà identitaria, ha avuto risultati deprimenti, mentre ha avuto successo solo nei casi in cui ha saputo dar vita a più ampie aggregazioni, intorno a candidati sindaci credibili, o innovativi nel linguaggio e nei modi di far politica. Rimane, piaccia o no, il Movimento 5 Stelle. L’accusa di populismo ormai appare del tutto risibile, trattandosi un carattere assunto da quasi tutti i soggetti politici in campo: non è forse populista Renzi? E sarebbe anche ora di prendere atto che, davanti alla crisi profonda e irrimediabile della rappresentanza, il populismo è non soltanto un sintomo, ma una risposta, e una risposta che molto spesso, se non sempre, si rivela efficace. Dunque smettiamola di demonizzare, e proviamo a decrittare anche i codici del populismo, per capire se si possa in qualche modo cavalcare la tigre piuttosto che contrapporle forme oggi in crisi di azione politica. In ogni caso, qui, in questa tornata elettorale, vanno tenute in conto le ragioni e le vicende locali. E che cosa possiamo dire? Che a Roma, la defenestrazione di Ignazio Marino è stato uno dei più clamorosi esempi di azione antipolitica, di violazione di ogni legalità sostanziale (al di là degli espedienti da azzeccagarbugli come le firme davanti al notaio per far decadere giunta e consiglio comunale!), e uno dei gesti più odiosi della vita politica nazionale dell’intero dopoguerra. Di tale azione Renzi porta la gran parte della responsabilità, ma anche M5S, e pure le frattaglie della sinistra (SEL, nella fattispecie), sono stati complici, sia pure in subordine, e mostrando via via segni di cedimento se non di tardivo pentimento. Non foss’altro che per questo che occorrerebbe battersi contro Giachetti, pur nei limiti evidenti dell’antagonista Raggi, limiti che peraltro la accomunano a tutta l’élite pentastellata. Al di là della colpa d’origine tuttavia è chiaro che Raggi a Roma, come Appendino a Torino siano espressione di una idea di città diversa e sostanzialmente alternativa a quella dei consules renziani in sede locale, autentica espressione dei “poteri forti”, graniticamente convinti delle ferree “leggi del mercato”, acritici sostenitori di uno “sviluppo” i cui frutti vanno redistribuiti in modo direttamente proporzionale allo status sociale: chi ha di meno, riceve di meno, chi ha di più riceve di più. Una proporzionalità iniqua, di cui però le statistiche danno conto. Alle città che consumano suolo, alle città gestite dalle banche, alle città che privatizzano i beni pubblici, alle città che per fare cassa vendono le proprietà comunali, alle città che sono lanciate nella inesausta follia delle “grandi opere”, M5S contrappone un modello di città esattamente rovesciato. “Solo slogan e ideologia!”, si replica da parte del PD e dei suo innumerevoli sostenitori a livello giornalistico. Sarà pure ideologia, ma non ce n’è forse bisogno? La “politica del fare” dove ci ha condotto? Vogliamo o no rimettere in discussione un modello urbano, un progetto politico, una filosofia sociale che si sono rivelati esiziali? Prendiamo Torino: il giornalista Maurizio Pagliassotti in una coppia di libri preziosi di qualche anno fa (Chi comanda Torino e Sistema Torino, sistema Italia entrambi editi da Castelvecchi rispettivamente nel 2012 e nel 2014) ha rappresentato perfettamente la situazione della città più indebitata d’Italia, dopo i Giochi olimpici invernali del 2006, sui quali si sono costruite ineffabili fortune politiche oltre che economiche. Tutti i visitatori notano e sottolineano i cambiamenti della città, che sono stati in parte frutto della febbre olimpica e della pioggia di denaro che essa ha scatenato. Ma quei cambiamenti (“Torino è diventata più bella”, “Torino è oggi meta turistica”, “Torino città dell’eccellenza”, e via seguitando) innanzi tutto sono evidenti nel centro e nelle zone dove risiedono le classi dominanti; le periferie sono peggiorate, con una divisione nettissima della città che corrisponde alle classi sociali. I poveri o i nuovi impoveriti (certificati dalla Caritas), e gli immigrati sono ormai tutti collocati nelle zone esterne al centro: e come accadeva ai tempi del primo dopoguerra, e notava Antonio Gramsci, la città mostra chiaramente di essere divisa in due gruppi sociali contrapposti, senza mediazioni: borghesi e proletaria, scriveva Gramsci; oggi possiamo semplicemente parlare, peraltro riprendendo il lessico dell’ultimo Gramsci, di “dominanti” e “subalterni”. In sostanza la politica delle grandi opere, la privatizzazione dei beni comuni, i grandi eventi hanno portato ricchezza e benessere a chi già ne godeva, e hanno impoverito gli altri strati sociali, sia con la tassazione volta a ricuperare i fondi sperperati per gli eventi stessi, sia con la svendita di pezzi di città. I servizi sono stati ridimensionati, a dispetto delle affermazioni del sindaco uscente Fassino o il suo sodale in Regione Chiamparino. Si pensi per un solo esempio all’Ospedale Evangelico Valdese, classificato nei poli dell’eccellenza sanitaria regionale (falso, ma tant’è). Ebbene ai tempi della Regione in mano a Roberto Cota (quello delle mutande verdi pagate con fondi regionali…), quell’ospedale venne chiuso, per la logica degli accorpamenti a fine di far cassa: il PD sostenne la campagna per il no, convintamente. Oggi quello stesso PD insediato al governo regionale minaccia la chiusura dell’Ospedale Oftalmico, esempio rarissimo in tutto il territorio nazionale. Certo si parla di Regione, e non di Comune, ma la logica politica è la stessa, il partito al potere lo stesso, il personale politico è lo stesso. Il sistema Torino, al di là della parentesi leghista in Regione, dura da 23 anni e ieri Chiamparino ha garantito che saranno 28, dando per acquisita la vittoria del suo amico Fassino. Il quale sta sui carboni ardenti: fino al 5 giugno dava, con tutto il suo partito e la coalizione, per certo di vincere al primo turno; e il fatto che abbia perduto oltre 100 mila voti rispetto a cinque anni fa, certo non è un bel segnale. “Non si vota contro”, ha sentenziato Giuliano Pisapia venuto sotto la Mole a dar man forte al collega torinese; e invece, caro Pisapia, si vota sempre contro, prima di votare per. E oggi a Torino, come a Roma, si deve votare per le candidate Cinque Stelle, prima di tutto contro una idea di città iniqua e dannosa; ma votando contro quella idea si vota naturalmente, per così dire, per una idea opposta. “Loro vogliono una Torino più piccola”, ha concluso Fassino; “noi guardiamo allo sviluppo, ad una Torino più grande”. Grandezza, da perseguire vendendo suolo pubblico, alienando beni comuni, facendo giochi finanziari spesso oscuri, in un circuito vizioso in cui i beneficiari sono gruppi privati che ricevono denaro pubblico, oltre a garantirsi profitti dalla mercantilizzazione della città. Un esempio finale, una delle più grandi e interessanti aree industriali dismesse, quella degli stabilimenti Westinghouse. Un progetto per trasformarla in una biblioteca civica degna di questo nome (l’attuale è un penoso residuo dei primi anni Sessanta), progetto pagato oltre 16 milioni di euro, viene accantonato con una semplice variante al piano regolatore e dopo un passaggio intermedio in cui invece della biblioteca si decide per un centro culturale (di cui la biblioteca sarebbe stata parte), si opta per una soluzione gradita a soggetti privati che intervengono accanto al Comune a sostenerla: un centro commerciale! (Si legga l’articolo di Sergio Pace su Historia Magistra, n. 18/2015). Ecco, basterebbe questa penosa vicenda a rifiutare il “sistema Torino”, che è il “sistema Italia”, oggi, e le logiche, affaristiche (di profitto e di rendita) che lo sostengono e votare, anche senza sentirsi contigui al Movimento 5 Stelle, per chi a tale sistema si oppone, a Torino, a Roma, in Italia. “Un salto nel buio”, ha concluso Sergio Chiamparino nel suo appassionato endorsement per Piero Fassino. Può darsi. Ma tra una realtà nota che non ci piace, e una realtà ignota che si presenta come opposta alla prima, non esito a scegliere la seconda.

DA HERBERT MARCUSE A MATTEO SALVINI

Da Herbert Marcuse a Matteo Salvini Uno dei mantra degli ultimi decenni è che il “glorioso 68” con tutto quanto conteneva fu rovinato dalle Brigate Rosse, concetto da cui discende il povero corollario delle “manifestazioni pacifiche rovinate da pochi estremisti violenti”. Quanto alle Brigate Rosse e al movimento comunista degli anni Settanta dello scorso secolo, a chi vuole studiarne l’esperienza in modo scientifico il nuovo PCI offre il suo Avviso ai Naviganti 62 (http://www.nuovopci.it/dfa/avvnav62/avvnav62.html), che dà indicazioni fondamentali a chi si vuole impegnare nella ricostruzione della storia del nostro paese, cosa che la borghesia imperialista con i suoi scrivani fa sempre meno e sempre peggio. Ne è esempio l’ultima produzione di Paul Ginsborg, che ebbe qualche fama tra il 2012 e il 2013 come promotore di un aggregato di intellettuali orfani del partito comunista, (ALBA, Alleanza Lavoro BeniComuni Ambiente) e partecipe di una cosa del primo decenno del secolo, i cosiddetti “girotondi” contro Berlusconi, cui partecipò Nanni Moretti, un altro intellettuale che ha dato un contributo notevole all’opera di confondere le idee alle masse popolari falsificando la realtà e facendo concentrare l’attenzione su dettagli inutili. Leggere questo articolo che commenta quello che scrive Ginsborg è interessante per le conclusioni: l’autore del commento riassume un percorso che facendo proprie posizioni diffuse in Italia dalla Scuola di Francoforte e dal suo esponente più noto, Herbert Marcuse, termina con il dire che il punto di riferimento centrale è la famiglia, spiegando come questa conclusione coincida con le concezione più reazionarie che nel nostro paese si sono manifestate, dai sanfedisti che schiacciarono la Rivoluzione Napoletana del 1799 al Matteo Salvini di oggi. Il resto del percorso è poco interessante, nel senso che ripete alcune banalità sulla contraddizione tra razionalità e sentimento (passione) che stanno, rispetto a quanto scoperto da grandi tra i quali cito solo Gramsci, Spinoza, Machiavelli, nel rapporto in cui una pozza d’acqua dopo il temporale sta rispetto al mare. In definitiva e in estrema sintesi, la verità (la razionalità) di una scienza si misura nella pratica e, quanto alla passione, deve generare nientemeno che amore (1). L’utilità del leggere lo stato in cui la scienza è ridotta nel campo della borghesia imperialista è ulteriore stimolo a lanciarci e dare il nostro contributo per lo sviluppo e la diffusione della nuova scienza, quella che Mao ha chiamato la “teoria più elevata che il pensiero umano abbia mai creato.”(2) Portiamo battaglia nelle scuole e in tutte le istituzioni dove la borghesia e il clero spacciano la loro “cultura”. Studiamo, costruiamo luoghi per lo studio, scuole, biblioteche, mettiamo a disposizione le nostre risorse, facciamo sì che tutti portino risorse per poter studiare noi e per fare studiare le masse popolari del nostro paese. Questo è un fondamento essenziale per costruire la rivoluzione. Abbiamo davanti a noi un grande futuro. Chi se ne sta chiuso in casa come Ginsborg non lo vede, e nemmeno vede che la casa brucia. Fuori c’è il sole. Sedotti e abbandonati dal neoliberismo Qualche anno fa Pierre Dardot e Christian Laval ci avevano proposto un ampio affresco del neoliberismo come «nuova ragione del mondo». In un testo assai più breve e decisamente meno ambizioso Paul Ginsborg e Sergio Labate (Passioni e politica, Einaudi, pp.130, euro 12) ce lo descrivono come potente governo delle passioni, capace di farle confluire in una nuova, pervasiva forma di «servitù volontaria». Nell’un caso e nell’altro il neoliberismo non viene considerato solo come un modo di produzione e un sistema economico, sia pure munito degli apparati ideologici e giuridici necessari al suo funzionamento, ma anche come una forma di vita e un insieme di processi di soggettivazione capaci di integrare l’intera società e la pluralità dei suoi componenti nel processo di accumulazione del capitale. L’argomentazione di Ginsborg e Labate muove dalla distinzione storica tra la sfera della razionalità e quella delle passioni e dalla convinzione che la prima risulti del tutto impotente di fronte a quello che gli autori definiscono il «romanticismo neoliberista» che ha progressivamente colonizzato i nostri desideri e condizionato i nostri comportamenti, portando a compimento nella più insidiosa delle forme quell’«integrazione» della personalità di cui Herbert Marcuse scriveva già mezzo secolo fa. E subito insorge qui un primo problema nell’isolare il tema delle passioni. Il neoliberismo ha infatti reso assai permeabile il confine (da sempre problematico) tra razionalità e irrazionalità (basti pensare al vitalismo, tra analisi e superstizione, che anima il capitale finanziario) e tradotto in raffinati algoritmi desideri e aspirazioni. E, del resto, la «ratio» stessa è sempre stata a sua volta una passione, desiderio irrefrenabile di dominare il caos del mondo privato del suo ordine divino. Di questo ordine razionale il neoliberismo si pretende custode rigoroso non meno che seduttore delle nostre passioni. Quando afferma perentoriamente di essere privo di alternative non blandisce certamente alcun «romanticismo», ma si pone, appunto, come unica e indiscutibile «ragione del mondo». La gabbia del merito Non si può negare, tuttavia, come sostengono gli autori, che attraverso una serie molto articolata di strumenti (e anche qualche processo involontario) il neoliberismo sia riuscito a penetrare a fondo nella vita intima dei singoli e metterne a profitto passioni, desideri, talenti e inclinazioni. Non avrebbe dunque alcun senso opporre un catalogo di passioni positive ad un altro di passioni negative, e non solo per l’ambiguità che tutte le attraversa, ma perché le une e le altre possono essere messe al servizio del processo di accumulazione e a salvaguardia delle gerarchie sociali esistenti. Il neoliberismo non fa altro che includere ogni passione umana nel dispositivo, razionale (funzionale cioè alla crescita dei profitti) ed emotivo al tempo stesso, che gli è proprio: la competizione, non di rado declinata nella categoria morale del «merito» a sua volta imparentata con l’antica idea di «virtù». All’interno della quale il «capitale umano» di ogni singolo riceve l’occasione per accrescersi in quanto tale. Il matrimonio di interessi, per fare un solo esempio, esiste dalla notte dei tempi, ma dubito che qualcuno prima degli anni 80 del secolo scorso abbia mai sentito parlare di una relazione amorosa in termini di «investimento affettivo». Ora, caratteristica ineludibile di ogni competizione è che essa comporta vincitori e vinti. E sospinge i secondi, salvo conceder loro la possibilità di provarci una seconda volta, verso un unica «passione» (o grumo di passioni): il risentimento. Di questo stato d’animo Nietzsche e Max Scheler ci hanno spiegato l’essenziale: si tratta di una passione «reattiva» che non trae da sé alcuna forza, ma rovescia la sua impotenza vittimaria in virtù e in colpa il successo altrui. Consumandosi in un rancore incapace di agire, la massa dei perdenti invoca un vendicatore dei torti subiti. Che si tratti di un dio, di una religione, di una comunità immaginaria o dell’uomo forte. Di questa deriva Hans Magnus Enzensberger ci ha offerto una efficace descrizione in un breve scritto di alcuni anni fa intitolato Il perdente radicale. I perdenti globali Il risentimento è, insomma, la passione politicamente mobilitabile per eccellenza. La delega portata alle sue estreme conseguenze. Il mondo contemporaneo, dall’Isis alle destre identitarie e xenofobe che avanzano in Europa, ci offre una infinità di esempi della forma velenosa che lo stesso antiliberismo (ovviamente con tutti i compromessi del caso, stipulati dagli smaliziati condottieri di questi diseredati) può assumere tra i numerosi perdenti nella competizione globale. Il gioco di specchi tra competizione e risentimento domina, dunque, la scena, né può venirci in soccorso la distinzione tra passioni individuali e passioni collettive, potendo entrambi assumere l’una o l’altra forma. La prima come concorrenza tra nazioni (senza escludere l’eventualità della guerra) oltreché tra individui. Il secondo come frustrazione privata oltreché come odio razziale o «scontro di civiltà». Ginsborg e Labate propongono di opporre alla colonizzazione liberista dei desideri e dei comportamenti una sorta di «autogoverno» delle passioni che ne privilegi l’inclinazione verso l’armonia sociale e il rispetto per il bene comune. Magari coltivando combinazioni «equilibrate» di passioni diverse come fermezza e temperanza o «curiosità e privacy» ed escludendo quelle decisamente impresentabili. Quanto ai governanti poi, si suggerisce loro di mitigare il proprio narcisismo ricordando le severe virtù prescritte da Max Weber. Il rapporto tra politica e passioni prende insomma, nelle conclusioni degli autori, la forma di un galateo, se non proprio di un catechismo, delle relazioni sociali e del potere statale. Stendardi sanfedisti Una diffidenza di fondo nei confronti della libertà individuale (non a caso il tema della libertà è del tutto assente in questo testo, se non come sottrazione alle lusinghe del mercato) consegnata senza residui al neoliberismo conduce Ginsborg e Labate a prediligere come sede delle passioni migliori, e come interlocutore privilegiato dello Stato, le famiglie. Quelle per bene, naturalmente, che non giocano l’affettività interna contro il mondo esterno, aperte e solidali, bridging, secondo una terminologia sociologica che rimedia coi neologismi all’inconsistenza dei concetti. Ma soprattutto nucleo sociale nel quale la libertà di scelta dei singoli è limitata per definizione e fin dall’origine. La parola d’ordine che conclude questo viaggio disincarnato, contraddicendo ogni materialismo spinoziano e non, attraverso le passioni è «connettere la politica con la sfera familiare». Questa politica è lo Stato che, se saprà dimostrarsi «accogliente e incoraggiante», le famiglie sapranno rispondere positivamente appassionandosi alla causa comune. Se non fosse che, per questa volta, non si è voluto disturbare il padreterno non saremmo poi così lontani dallo stendardo sanfedista del Dio, Patria e Famiglia (lo Stato si suppone infatti essere quello nazionale). E siffatte conclusioni non dovrebbero affatto dispiacere a quei campioni dell’antiliberismo che rispondono ai nomi di Matteo Salvini e Victor Orban. NOTE 1. “…noi dobbiamo fermamente ritenere che ciò che ha un valore vero si attui nella pratica e si renda amato.” (W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze, 1a ed. anastatica 1973, 11a ristampa 1993, p. 39) Questo non significa necessariamente che la verità di una cosa sta nel fatto che “funziona”, ma che la sperimentazione scientifica è misura della verità sia che l’esperimento sia un successo oppure no, perché anche dagli errori si impara, e imparando si arriva al successo. 2. Mao Tse tung, Opere, ed. Rapporti Sociali, Milano, 1992, vol. 9. P. 67.

LA MALAFEDE DI ALBERTO ASOR ROSA

La malafede di Alberto Asor Rosa Il quotidiano Il manifesto, è nel pallone perché ha sempre attaccato il M5S in modo spudorato, affiancando così oggettivamente il golpe bianco di Napolitano del 2013 con tutto quello che ne è seguito, ma oggi non può non vedere le potenzialità di questo organismo, e come in esso convergano parecchi che vengono dalla sinistra e anche dal vecchio PCI, che sono giustamente niente affatto convinti dei pastrocchi sinistresi a partire dalla Sinistra Arcobaleno, ad ALBA (Alleanza Lavoro BeniComuni Ambiente) fino all’AltraEuropa o Italia per Tsipras. Quindi insiste nel tentare un colpo al cerchio e uno alla botte, con cadute pericolose, come quella odierna, in cui apre con un intervento di A. Asor Rosa. L’intervento mostra il punto in cui l’idiozia politica sconfina nella malafede, in cui uno che si è dichiarato comunista si rovescia in dichiaratamente reazionario, in cui Rosa si rovescia in Asor, cosa che, secondo lui, è legittima perché, dice, la sinistra è double face, il che è in perfetto stile con la Repubblica Pontificia, dove la doppiezza intellettuale e morale è norma, e i gesuiti la gestiscono, dal cardinale Bellarmino, il “poliziotto buono” nei processi a Galileo e Bruno cinquecento anni fa, a Bergoglio oggi. Qui arriva, senza vergogna, in un giornale che si dice comunista, a chiamare in suo aiuto Giovanni Gentile, che dai comunisti fu giustiziato. La ragione del degrado che questo uomo manifesta, al di là di interessi suoi specifici, poltrone da difendere, ville in Toscana da mantenere, sta nel fatto che gli manca la prospettiva che distingue i comunisti, cioè la rivoluzione socialista. Il sole dell’avvenire, che ha continuato a splendere nonostante Asor Rosa e soci, non lo illumina. Gli manca quindi cognizione del fatto che oggi per questa prospettiva la vittoria del M5S a Roma (ma anche a Torino) è un fatto eccellente (vedi http://www.nuovopci.it/voce/comunicati/com2016/com.16.06.10.html). È uno di quegli pseudo comunisti che oltre a seminare confusione tra le masse popolari alle masse popolari, che disprezza come fossero pecore che seguono il papa di turno, vorrebbe “togliere loro la gioia”, come ha detto in un suo post su Facebook Gaetano di Vaio (“Detesto certi comunisti che hanno usato il comunismo… Essere comunista per me è una gioia che proprio i pseudo comunisti mi volevano togliere”) Il nuovo movimento comunista sradica queste erbacce e coltiva questa gioia, e coltiva la conoscenza scientifica della realtà e della storia che questa gioia genera. L’ARTICOLO Il mio ragionamento è questo (per quanto possa risultare sgradevole, mi auguro che sia letto fino in fondo). 1) Qual è l’obiettivo politico-istituzionale, con cui una “sinistra” dovrebbe mirare (in Italia di sicuro, ma forse, in altre forme, anche nel resto d’Europa) per conseguire il governo del paese? Penso che in Italia, nell’attuale situazione storica, anzi, forse in una dimensione addirittura epocale, non ci sia altra risposta se non un governo, fortemente ragionante e solidamente strutturato, di centro-sinistra. Gli uomini di sinistra che pensano attualmente ad altro, non sbagliano: vaneggiano. 2) Controprova. Perché le liste dichiaratamente di sinistra pressoché dappertutto al primo turno delle elezioni comunali, il 5 giugno scorso, hanno ricevuto così pochi consensi, sproporzionati persino al livello attuale di contestazione che nel paese (comitati, associazioni, gruppi spontanei, sindacati, ecc. ecc.) sembrerebbe invece persino esser cresciuto nel corso degli ultimi anni? Perché non dichiaravano soluzioni politico-istituzionali credibili ma solo un lungo elenco di denunce e di proteste (assolutamente giuste, in sé considerate). La gente, anche se ti è vicina, non ti vota se non hai da proporre soluzioni politico-istituzionali credibili. 3) Esiste per la nostra sinistra una soluzione politico-istituzionale credibile, e magari autorevole, e cioè un governo di centro-sinistra ragionante e solidamente strutturato, senza il Pd? Non esiste. E perché? Perché non sono alle viste soluzioni alternative di nessun tipo. Qui, anche da questo punto di vista, mi guardo intorno, e all’interrogazione si mescola qualche punta di stupefazione. Può la sinistra italiana costruire un governo di centro-sinistra, – o qualcosa che seriamente gli equivalga, – con il Movimento 5Stelle? E’ evidente per me che non può. Per almeno tre buoni motivi: a) Il Movimento 5 Stelle in realtà non è un movimento vero e proprio (come, ad esempio, Podemos in Spagna), e tanto meno un partito: è il prodotto, senza dubbio indovinato, della ditta Grillo-Casaleggio, che all’occorrenza, come abbiamo visto recentemente, si trasmette addirittura per via ereditaria; dove di conseguenza il comando, discende esclusivamente dall’alto; e non consente nessuna democrazia interna (c’è bisogno di fare esempi?); e non manifesta in realtà nessuna simpatia neanche per le forme esterne, generali, della democrazia; b) Il Movimento 5Stelle rappresenta l’espressione pura e semplice, e, se si vuole, più diretta e autentica, di quell’inquieto disagio di massa, prodotto inevitabile e perciò estremamente diffuso della crisi della democrazia rappresentativa e del sistema dei partiti in Italia; è, culturalmente e idealmente, più vicino alla Lega di Salvini e all’Ukip di Farange che non ai resti della vecchia sinistra (tant’è vero che, laddove si può, si predispongono a scambiarsi voti al ballottaggio nel nome del comune odio al sistema); i candidati e le candidate che lo rappresentano sono uomini e donne partoriti direttamente dalla crisi della massa, parlando la lingua balbettante e informe dei loro consimili, e perciò sono così popolari (qualche risorgente simpatia elitista? Ebbene sì); c) La combinazione “disagio incontrollabile della massa – comando indiscusso e indiscutibile dei Capi” (non ci vuol molto a capire che fra le due cose corre una relazione), ricorda, naturalmente con i necessari ovvii punti di differenza, esperienze consimili già avvenute in Italia, ma, anche in questo caso, anche in Europa. Altro che Michels e Pareto! Ci vorrebbe un novello Giovanni Gentile, magari al livello degradato dei nostri tempi (ma forse oggi basta Grillo), per spiegare e apologizzare un fenomeno come questo. Naturalmente questo discorso non esclude che una quantità anche notevole di italiani onesti e disgustati dal sistema politico italiano abbiano aderito al M5S. Per questi elettori il ragionamento sarebbe diverso. Ma il voto no. 4) Dunque, se le cose stanno così, siamo di nuovo alla presunta inevitabilità dell’alleanza sinistra-Pd per preconizzare e preparare un governo di centro-sinistra, ragionante e solidamente strutturato, nel nostro paese. Ma chi è l’avversario attualmente più solido e autorevole della formula di governo denominata di centro-sinistra, almeno in Italia? Anche qui la risposta non è difficile. E’, senza ombra di dubbio, Matteo Renzi, che è, come noto, l’attuale segretario del Pd, oltre che capo di un governo tendenzialmente più di centro-destra che di centro-sinistra. La cosa è tanto paradossale, e anche scandalosa, in quanto la linea renziana è stata portata avanti con una situazione sostanzialmente favorevole alle Camere solo perché essa è stata creata con una proposta elettorale (appunto) di centro-sinistra. Per realizzarla, dunque, è stato necessario rovesciarla; e questo è stato possibile solo perché siffatta maggioranza si è adeguata senza sostanziale resistenza al mutamento, e con essa la maggioranza del partito, ossia del Pd. E allora? 5) Allora, è evidente che una linea di centro-sinistra può essere restaurata e praticata solo battendo Renzi nei suoi punti più vitali, che sono anche quelli cui lui attribuisce più importanza. E’ possibile? Osserverei questo. La linea Renzi, e quindi l’abbandono di una prospettiva di governo di centro-sinistra, sta chiaramente portando il paese, non solo a una sconfitta personale del Capo, ma ad una vera e propria catastrofe politica, istituzionale, economica e sociale: di cui altri, non la cosiddetta sinistra, ma una destra sempre più estrema, oltre che, ovviamente, il Movimento 5Stelle, si affretterebbero a giovarsi (come appunto sta già accadendo). A mio giudizio questa consapevolezza si sta sotterraneamente diffondendo, al di là della sfera, attualmente un po’ limitata, della nostra sinistra: nei grandi giornali d’informazione ne sono già comparsi i segni, e persino in qualche snodo della maggioranza (come sempre in Italia sono i vecchi democristiani ad aver fiutato il vento che cambia). Sembrava che fosse un condottiero instancabile e infallibile. E se fosse un perdente predestinato? Ha organizzato tutto per stravincere: e se per gli stessi motivi, come è sempre più probabile, fosse destinato alla più sonora delle sconfitte? 6) E’ evidente che la battaglia decisiva è quella sul referendum: anch’essa non priva di ambiguità, se è vero che a ottobre, per la prima volta in vita nostra, voteremo insieme con la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Tuttavia, bisogna assolutamente ottenere che al referendum vinca il no. Anche se più decisiva ancora del referendum costituzionale risulta per noi (noi sinistra) la nuova legge elettorale, l’Italicum. Sempre più lampante appare infatti che essa sia pensata, più che altri motivi, appositamente per rendere impossibile perfino sul piano istituzionale l’alleanza di centro-sinistra. Cambiare l’Italicum significa dunque, non soltanto assicurare al voto, in generale, migliori garanzie di correttezza istituzionale: ma rendere di nuovo possibile la prospettiva dell’alleanza di centro-sinistra. Del resto in Italia chi pensa di poter fare da sé, e fa da sé, spesso “ruina“. Nella storia recente è già accaduto almeno una volta. 7) Il problema ora è: come si arriva, se possibile, ordinatamente e ancora in forza, al voto di ottobre, e non in una situazione d’irrimediabile, – ripeto: irrimediabile, – catastrofe? Qui le strade, me ne rendo conto, si separano. Io penso che lavorare ora (ballottaggio delle comunali) per abbattere, o, peggio, contribuire ad abbattere Renzi sia un errore. Per arrivare a ottobre in condizioni di sopravvivenza (parlo in questo caso anche della sinistra strettamente intesa), e garantire la possibilità dell’unico passaggio positivo possibile, occorre che non prevalgano gli avversari più potenti e determinati della prospettiva di centro-sinistra, e cioè la Destra (sempre più estrema) e il Movimento 5Stelle. E occorre che il Pd, – attualmente di Renzi, ma domani chissà, non si disgreghi, non si disgreghi letteralmente sotto il peso di una clamorosa sconfitta, prima di essere messo in grado di riprendere la strada violentemente interrotta. Perciò io penso che i candidati Pd alla carica di sindaco, ovunque, ma soprattutto a Milano, Torino e Roma, vadano votati nelle consultazioni di ballottaggio (Napoli e, sul versante esattamente opposto, Sesto Fiorentino sono casi totalmente anomali, che non possono essere collocati all’interno di questa casistica). Ma: nel caso che il voto dia in questo senso un esito positivo, non potrebbe Renzi vantarsene per rafforzare la sua posizione? Sì, certo potrebbe. Ma ho già scritto in passato su questo giornale che ogni battaglia per la sinistra è sempre, di questi tempi, double face. In ogni occasione, e ad ogni snodo, bisogna scegliere nell’immediato il male minore, o, in prospettiva, e se ci si riesce, l’opportunità migliore e più desiderabile. Io direi che, in questo caso, puramente e semplicemente, non ne esiste un’altra.

INDICAZIONI DI VOTO PER L'11 GIUGNO

Gramsci voterebbe De Magistris a Napoli e Raggi a Roma. Guido Liguori, presidente della International Gramsci Society, (vedi la lettera aperta a lui rivolta dal (nuovo) PCI in http://www.nuovopci.it/dfa/avvnav45/avvnav45.html) non lo dice esplicitamente ma lo pensa in questo articolo che nel Manifesto di oggi è contrapposto a un altro, dove si dice perché si dovrebbe invece votare PD ai ballottaggi. Il Manifesto con l’operazione vorrebbe dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ma le ragioni di Liguori sono più consistenti di quelle di Floridia, secondo il quale ora dovremmo poter tornare al PD perché Renzi ha avuta la sberla e ha imparato la lezione, e d’ora in poi si comporterà bene, non farà più cose brutte, ecc. Liguori da un lato è minimalista, e spera in una alleanza tra 5Stelle e sinistra come c’è in Spagna tra Podemos e Izquierda Unida, ma dall’altro in lui brilla qualcosa di più ampio, appena distoglie lo sguardo dall’immediato e lo estende al secolo, tornando a Gramsci. Qui vede “una possibilità reale di autogoverno, non prevista da quella storia vista dagli elitisti come sempre uguale a se stessa”, e cioè non prevista da quella che chiama “elìte”, che in Italia oggi è quella che ha proposto come “nuovo” Matteo Renzi, fenomeno che si va consumando in fretta, come rapidamente si sono consumati i suoi predecessori, Monti e Letta, e come si va consumando definitivamente Berlusconi, che si presentava come esponente di una era e di una concezione, il “berlusconismo”. L’autogoverno delle masse popolari, la loro partecipazione nella gestione della società, è la strada maestra del futuro del nostro paese, e la costruzione nuove autorità pubbliche nei territori, di amministrazioni locali di emergenza, di un governo di emergenza è il modo in cui costruire tutto questo oggi. Quindi non è che “si può votare 5Stelle” e De Magistris oppure “si può votare PD”, ma non si deve votare PD, e si deve votare De Magistris a Napoli e Raggi a Milano.

Perché si può votare 5Stelle
Guido Liguori, 11.06.2016
Ballottaggio. La sinistra e i 5Stelle a piccoli passi Il voto del 5 giugno non può essere definito soddisfacente per la sinistra, che conferma uno zoccolo duro del cinque per cento oltre il quale oggi sembra non riesca ad andare. L’eccezione significativa è Napoli, e ci tornerò più avanti. Mentre il risultato di Cagliari non costituisce una eccezione, basandosi sulla alleanza tra sinistra e Pd, improponibile se proiettata su scala nazionale. I casi più evidenti sono quelli di Roma e Torino, con candidati noti e largamente condivisi come Fassina e Airaudo. Sarebbe ingeneroso imputare loro colpe specifiche: questi due risultati non fanno che confermare un dato non locale e non solo momentaneo. Né altre liste “più di sinistra” o “più di movimento” possono vantare risultati significativi, anzi. Alcune riflessioni e alcune ipotesi non scontate dunque si impongono. I 5s sono gli unici a uscire vincitori dal voto, e il secondo turno, comunque vada, non cambierà il fatto che essi sono oggi il primo partito in Italia, o possono diventarlo. I 5s prosciugano al momento l’area della protesta: lo si è detto e ripetuto, si è tentato e sperato di annullare o aggirare questo fatto, ma nonostante la zona di insofferenza per il renzismo si allarghi nel paese, la sinistra non intercetta lo scontento e sono solo loro a trarne giovamento. Intanto annotiamo che il movimento fondato da Grillo ottiene oggi il suo lusinghiero risultato introducendo forse a sorpresa un elemento in controtendenza con la personalizzazione della politica largamente diffusa: chi conosceva Virginia Raggi o Chiara Appendino prima che iniziasse la campagna per le comunali? È un fatto su cui riflettere. Esso indica che vi è un movimento di popolo che si esprime attraverso perfetti sconosciuti, tanta è forte la insofferenza per la classe politica. Con tanti saluti alla “democrazia del leader”. Un altro risultato importante che va riconosciuto ai pentastellati è il fatto che essi hanno fatto saltare il letto di Procuste a cui ci ha condannato nel 2008 il democratico Veltroni, cercando di amputare le “eccedenze”, come il celebre bandito della mitologia greca. Certo, tra le eccedenze c’era anche e soprattutto la sinistra, e Veltroni è riuscito per il momento nell’intento. Ma inaspettatamente altri soggetti sono usciti dal sottosuolo e hanno gridato il loro no. C’è chi dice no a una idea di democrazia “occidentale” a uso e consumo delle élites, dunque. In vista del prossimo referendum questo è un dato decisivo, per difendere la Costituzione e poi anche per affossare quell’Italicum che è la peggiore legge maggioritaria che abbia mai visto questo paese, peggiore della legge del fascista Acerbo del 1924 e della “legge truffa” del 1953. Questo fronte di lotta, di difesa della democrazia, resta quello fondamentale e va ricordato sempre, anche quando si vota per le comunali, poiché la difesa della democrazia è più importante dei treni in orario e delle strade pulite, che pure sono obiettivi a cui non rinunciare. Rileggendo quanto ho scritto, mi accorgo di aver usato termini (“classe politica”, “élite”) propri di quella teoria elitista che era sì una teoria reazionaria, ma con la quale già Antonio Gramsci aveva capito che si doveva fare i conti, anche se certo con l’intenzione di superarla, introducendo uno scarto democratico, una possibilità reale di autogoverno, non prevista da quella storia vista dagli elitisti come sempre uguale a se stessa. È contro una classe politica eternamente solidale nella difesa del privilegio e dell’imbroglio, che sono per Gaetano Mosca la vera essenza del parlamentarismo trasformistico, che il popolo del sottosuolo si è ribellato. È contro la legge della “circolazione delle élite” (le élites invecchiano e inevitabilmente vengono sostituite da élites più giovani, ma nulla cambia nella sostanza) di cui parla Vilfredo Pareto, che agiscono senza saperlo i peones che si ribellano nelle urne o nelle strade. È anche contro la “legge ferrea della oligarchia” operante persino nei partiti sedicenti di sinistra, legge denunciata dall’ex-militante della Spd di inizio ’900 Robert Michels, che il popolo dei 5s ha riempito le piazze, anche rispondendo a parole d’ordine demagogiche, alla famosa “antipolitica”, che certo però non è nata sotto i cavoli. Populismo, si dirà. Certo. Ma non tutti i populismi sono uguali. Vi sono populismi di destra e di sinistra. Vi è il populismo della Le Pen e il populismo di Podemos, ad esempio: hanno segni, cifre, orizzonti del tutto opposti. Se votassi in Spagna voterei per Izquierda Unida, senza dubbio. Ma sono molto contento che questo fronte di sinistra (nel quale da molti anni sono anche i comunisti) sia oggi alleato con Podemos nella coalizione elettorale Unidos Podemos, una sfida politica che ha per posta il governo del paese iberico. (E ripeto en passant che anche in Italia l’idea di una “izquierda unida”, di un “frente amplio” come quello che ha governato l’Uruguay per tanti anni, non era – e continua a non essere – affatto peregrina per la sinistra). Populista è anche De Magistris, si dice. E infatti aggira i partiti e instaura un contatto diretto col suo popolo. E attacca frontalmente il peggior populismo esistente, quello di Palazzo Chigi, che non sfonda anche per il servaggio che esibisce verso i vari potentati economico-finanziari. A Napoli De Magistris vince: è l’unico caso in cui la sinistra vince. Quando il sindaco di Napoli iniziò la sua avventura politica, fece notare in una intervista i due ritratti che aveva alle spalle nel suo ufficio: Che Guevara ed Enrico Berlinguer, il Berlinguer che andava in barca a vela scrutando l’orizzonte, affrontando a inizio anni ’80 – aggiungo –, dopo la brutta parentesi della “solidarietà nazionale”, il mare aperto del “rinnovamento della politica”, della questione morale, del ritorno alle lotte e ai movimenti. De Magistris non è né Che Guevara, né Berlinguer, per carità. Ma l’indicazione simbolica, benché parzialmente sincretica, era forte, e non è mai stata rinnegata. Piaccia o no, se ne vedono i frutti. Dunque, è possibile una alleanza tra la sinistra e un partito populista, per far saltare il tappo delle élites al potere? Forse sì. Ma ve ne sono le condizioni in Italia? No, oggi no. Possiamo però provare a costruirle. Iniziando da queste elezioni comunali. Che indicazioni di voto dare per i ballottaggi alle compagne e ai compagni, a questo cinque per cento che ancora ostinatamente si raccoglie intorno alle bandiere rosse della sinistra? Nessuna indicazione, tutti liberi di disperdersi tra astensione, voto masochista al Pd, voto in ordine sparso ai 5s? Sarebbe solo la non scelta di chi ha paura di dividersi. Bisognerebbe invece, con coraggio, fare un passo: offrire apertamente questi voti ai candidati 5s. In cambio di cosa? Non di posti o di potere, certo. In cambio di gesti simbolici e politici (la collocazione a Strasburgo, ad esempio) che facciano intendere, a noi e a tutti, che i 5s sono o vogliono essere, per dirne una, antifascisti e antirazzisti. La sinistra è nata due secoli fa per abolire il privilegio, per distribuire democraticamente potere e risorse: ci dicano se questo ci unisce o ci divide. Sarebbe, in caso di risposta positiva, un riconoscimento reciproco. I 5s credo non accetterebbero, oggi, come non ha in un primo tempo accettato Podemos in Spagna l’offerta di alleanza di Izquierda Unida. Beninteso, Podemos e 5s sono diversi. Ma la cocciutaggine dei fatti è la stessa, e opera potentemente in Italia come in Spagna. Non aspettiamo di subire gli aventi: prepariamoli. Anche molte compagne e molti compagni della sinistra che oggi giudicherebbero questa alleanza improponibile dovrebbero pian piano iniziare a pensarne la fattibilità e l’opportunità. Da qui potrebbe partire un discorso nuovo per la sinistra in Italia.

Perché si può votare Pd
Antonio Floridia, 11.06.2016
Ballottaggio. Renzi ha già preso il colpo, si può scegliere il sindaco I guasti che ha prodotto Renzi, il suo modo di fare, ancor prima che la sua strategia politica, si possono misurare con mano in questi giorni, avvicinandosi i ballottaggi. Questi, per la loro stessa natura, offrono sempre una possibilità di scelta che appare scomoda e insoddisfacente, per tutti coloro che al primo turno avevano scelto un’altra opzione. Tuttavia, in condizioni normali, un elettore ragionevole è in grado di misurare la distanza che separa le proprie idee da quelle dei due candidati rimasti in corsa. Questo sembra proprio non stia accadendo in questi giorni: in condizioni normali, per un elettore di sinistra, per quanto critico possa essere con il Pd, non dovrebbero esserci dubbi, posto di fronte alle alternative che si profilano nelle principali città italiane, ma anche in molti altri comuni. Sarebbe logico, comunque, votare per un esponente democratico, a fronte di alternative o apertamente di destra o ambiguamente impolitiche, come quelle incarnate dal M5S. Ma non è così: la scelta astensionista, o il dilemma tra l’astensione e il voto al M5S, sembra dividere apertamente quell’area di elettori che, al primo turno, avevano votato a sinistra. E rischia di dividere pesantemente anche una forza politica in costruzione, come Sinistra Italiana. Siamo di fronte ad uno dei frutti più avvelenati del renzismo. Ciò che ha ispirato Renzi, in questi anni, è una logica profondamente divisiva, anzi provocatoriamente divisiva: una logica da terra bruciata, tesa a delegittimare ogni possibile interlocutore alla propria sinistra, o che non appaia prono ai suoi voleri. Ma gli effetti perversi che tutto ciò ha prodotto sono ora evidenti. Muovendo dalla pretesa e dalla presunzione di costruire il Pd come un partito pigliatutto, e onnivoro e autosufficiente, il Pd si ritrova senza un sistema di possibili alleanze, senza alcun potere di coalizione, isolato nella sua (peraltro declinante) forza elettorale, anche quando questa (e non è il più il caso di Roma, ad esempio) è ancora notevole. I ballottaggi mettono a nudo, con crudezza, questa condizione di isolamento. Non solo, ma questa strategia ha finito per rivelarsi del tutto fallimentare anche da un altro punto di vista: la rincorsa all’anti-politica ha finito per legittimare la forza che dell’anti-politica fa la sua cifra dominante, ovvero il M5S, e per farne l’unico vero antagonista. E del resto, è chiaro: se scegli questa narrazione, ci sarà sempre qualcuno più anti-politico di te, e più credibile, da questo punto di vista. Qualcuno si sta chiedendo come mai il M5S non sia stato minimamente scalfito da due anni di dosi massicce di populismo renziano? E come, anzi, credo che analisi più approfondite lo dimostreranno – il M5S si stia radicando anche da un punto di vista territoriale, con una presenza diffusa anche nei centri urbani medio-piccoli? Si spiega così il fenomeno a cui stiamo assistendo: un elettore di sinistra, normalmente sbeffeggiato, perché mai dovrebbe ora correre in soccorso dei candidati democratici in difficoltà? E’ legittimo il sospetto che, una volta acquisiti questi voti, Renzi li possa usare secondo il suo stile e i suoi modi. E che tutto continui come prima. Tuttavia, qualche dubbio rimane, e un supplemento di riflessione appare auspicabile: questa reazione istintiva, del tutto comprensibile, alla fine produce qualcosa di buono, innanzi tutto per il governo di queste città (che rimane pur sempre la principale posta in gioco)? E poi, da un punto di vista politico, bisogna considerare un altro aspetto: il colpo a Renzi è stato già dato, e non sarà facile da riassorbire. Si è già creato un fatto politico incredibile, su cui pochi avrebbero scommesso qualcosa, ancora pochi mesi fa: ossia, Renzi è divenuto un indesiderabile, la sua presenza a fianco dei candidati sindaci giudicata contro-producente. Renzi sta cominciando a normalizzarsi (o sgonfiarsi): e quindi anche l’atteggiamento nei suoi confronti potrebbe anche uscire da una logica che, in definitiva, rischia di apparire subalterna: come se tutto dovesse essere valutato sempre e solo in funzione di quello che lui fa, dice o pensa di fare. Per questo, è possibile rivolgere agli elettori di sinistra un invito: città per città, sulla base di valutazioni necessariamente specifiche, non può essere considerata un’eresia il voto al candidato che esprime comunque un’opzione democratica. Forse, possiamo tornare a ragionare come si ragiona, normalmente, di fronte ad un ballottaggio: votare per chi, anche solo in parte, pensiamo possa essere un sindaco migliore.