Ai
partecipanti al primo seminario romano su Gramsci,
sulla
concezione comunista del mondo e sulla riforma morale e intellettuale.
Agli
interessati.
Note per il primo seminario romano
L’otto
novembre teniamo a Roma un primo seminario sul contributo di Gramsci
all’elaborazione della concezione comunista del mondo e della riforma morale e
intellettuale. Ne seguiranno uno sulla Guerra Popolare Rivoluzionaria di Lunga
Durata e un terzo sul Vaticano.
Le
note che seguono sono tratte da quelle elaborate prima e dopo i seminari
napoletani alla Festa Nazionale della Riscossa Popolare di quest’anno. È utile
che chi partecipa al corso le studi.
Sono
un primo materiale di costruzione dell’opera in corso, cioè la restituzione al
mondo di Antonio Gramsci, la sua rinascita, che è aspetto essenziale della
rinascita del movimento comunista italiano e del movimento comunista mondiale.
Il seminario romano mira a essere contemporaneamente sviluppo della costruzione
ed elaborazione di materiali di costruzione nuovi.
Né
queste note sono né le prossime saranno una sintesi del pensiero di Gramsci su
concezione comunista del mondo e su riforma morale e intellettuale. Per una
sintesi del genere non bastano né quattordici né quattordicimila pagine. La
sintesi del pensiero di Gramsci sta nella sua realizzazione. Anche qui un passo
avanti nella Guerra Popolare Rivoluzionaria vale più di mille dibattiti a
vuoto. Questo quindi è solo un inizio. Continuons le combat.
Un
saluto a pugno chiuso.
Paolo
Babini
Commissione
Rinascita Gramsci
Firenze,
5 novembre 2014
Concezione comunista del mondo e riforma morale e intellettuale
Conoscere è fare
Discutendo
nell’incontro del 19 settembre della Commissione Rinascita Gramsci a Firenze
abbiamo parlato di Antonio Labriola (Cassino, 1843, Roma, 1904), il filosofo che
introdusse il marxismo in Italia, che insegnò per grande parte della sua vita a
Napoli. Spesso Gramsci fa riferimento a lui. La filosofia di Labriola, infatti,
è parte dello sviluppo della concezione comunista del mondo in Italia. Anche
Labriola affermava che la verità si raggiunge con il fare, che questo era
già noto nella Grecia antica, ai tempi di Socrate: “Socrate per il primo
scoprì: essere il conoscere un fare, e che l’uomo conosce bene solo quello che
sa fare.”[1]
La verità si scopre creandola.
Nella
concezione borghese del mondo esistono tante verità quanti sono gli individui
che le portano avanti funzionalmente ai loro obiettivi di successo personale
(la verità si ha, la mia verità finisce dove comincia la tua, come fosse un
campo, o un orto). Nella concezione clericale del mondo la verità è una, ed è
quella di Dio (la verità è). Nella concezione comunista la verità è una, ed è
deducibile dalla conduzione dell’esperienza e dalla successiva fase di bilancio
(la verità si fa). Imparare a scoprire la verità significa farla.
La verità si crea insieme.
Questa
verità è prodotto e patrimonio collettivo: non la si trova da soli, non ci si
emancipa da soli, non si passa, per usare la terminologia di Gramsci, da una
condizione isse a una condizione attiva da soli. Chi viene dalle masse popolari
e avanza da solo rispetto alla propria classe non fa altro che entrare nella
classe avversa: un esempio è lo studente che usa lo studio non per fare
avanzare l’intera classe, del sindacalista che fa il proprio interesse anziché
quello dei lavoratori, di Luigi Longo a fronte di Teresa Noce: Longo voleva
divorziare ma non si attivò per imporre una legge che consentisse il divorzio
alla popolazione italiana, come lei chiedeva, ma divorziò di nascosto da lei,
falsificando la sua firma, spalleggiato dal Comitato Centrale del Partito.
Studiare dipende da noi
La
teoria rivoluzionaria è tale solo se è fatta propria dalle masse, ed è tale
solo se si traduce in pratica. È tale, inoltre, se è “un vertice inaccessibile
al campo avversario”, come dice Gramsci, ed è inaccessibile nel doppio senso
per cui la borghesia non la comprende e per cui non può fermarne lo sviluppo.
Quando diciamo che “non possiamo studiare” descrivendo tutta una serie di
motivi oggettivi che ce lo impediscono non diciamo la verità. Studiare dipende
da noi.
La
scarsa volontà di studiare non è dovuta a mancanza di tempo o al fatto che ci
sono altre cose più importanti da fare. È dovuta alla convinzione che la
concezione comunista del mondo non è vera, che al massimo è una bandiera da
sventolare e non una scienza. Questo modo di pensare è diffuso: si prende sul
serio lo studio che, magari, mi consentirà di diventare medico o avvocato, ma
non quello che mi consente di diventare un dirigente della Guerra Popolare
Rivoluzionaria di Lunga Durata. Chi ragiona in questo modo pensa che per fare
la rivoluzione basta la volontà e non ci vuole scienza, e perciò non studiano
quello che il Partito gli dice di studiare, e leggono i documenti della
carovana, quando li leggono, come si legge il giornale.
I
compagni e le compagne che hanno figli devono sapere spiegare loro che essere comunisti
è essere scienziati, e che la concezione comunista del mondo è scienza come
quelle che stanno studiando a scuola. Che i loro figli lo credano o no è
secondario, ma è necessario che loro li informino di come stanno le cose, e
ancora prima, quindi, è necessario che loro, i genitori, siano convinti che le
cose stanno così, e cioè che la concezione comunista del mondo è una scienza, e
non una fede. Se non sono convinti di questo i figli non sapranno comprendere
perché i genitori fanno quello che fanno, ed è possibile che perdano il loro
rispetto.
Quelli
che non studiano sono quindi convinti che lo studio non è importante. Nelle
Lotte Ideologiche in corso in Campania e in Toscana abbiamo casi esemplari di
compagni che non ritenevano lo studio importante. A causa di questo hanno perso
il ruolo dirigente che era stato loro attribuito dal Partito, o addirittura non
sono stati capaci di stare nel Partito.
Chi
studia, chi discute delle questioni teoriche in modo scientifico, si sente
libero, e non sente il lavoro politico come un peso. Questo è il senso di
quello che ha detto una giovane compagna napoletana al seminario sulla riforma
morale e intellettuale tenuto alla Festa di Napoli.
Pensieri concreti
Quello
che Marx chiama concreto del pensiero è capacità di cogliere i vari aspetti che
compongono una cosa o un processo, e prima di tutto gli aspetti opposti che
costituiscono la sua contraddizione principale, dalla quale le altre
contraddizioni dipendono. La crisi, ad esempio, vista in modo unilaterale, è distruzione
e caos, ma questo modo di vedere oltre che proprio del senso comune è
soprattutto proprio della concezione borghese del mondo. La borghesia infatti
sente che la crisi è segno della propria fine, e dall’altro lato non può
comprendere che questa è la sua fine, perché non sa vedere altro assetto
sociale oltre a quello in cui lei domina. Per quanto le masse popolari vedono
la crisi in questo modo, tanto ne sono schiacciate. La crisi, invece, intesa
concretamente, è unità di opposti come impossibilità di mantenere il regime
borghese e quindi, insieme, spinta a superarlo. Da un lato mostra gli orrori
che comporta il persistere del modo di produzione capitalista, dall’altro
impone di avere scienza e fiducia e costruire il nuovo mondo. Scienza e fiducia
e costruzione della rivoluzione sono materia della riforma morale e
intellettuale.
Tutti i membri del partito sono intellettuali
“Che
tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come
intellettuali: ecco un‘affermazione che può prestarsi allo scherzo; pure, se si
riflette, niente di più esatto.”[2]
Una teoria può essere buona a spiegare il passato e non a spiegare il futuro?
Nella
Nota 9 del Quaderno 16[3] Gramsci dice
che Croce apprezza il marxismo perché spiega aspetti della realtà, ma nega che
serva per trasformarla. Il modo in cui Croce si pone rispetto alla teoria
rivoluzionaria è come quello di chi (anche dentro la carovana) dice che le
analisi del (n)PCI ha fatto finora sono confermate, ma quanto al futuro non si
sa se valgano. Questi dicono che quanto al presente non si può negare che questo
partito dice il giusto, ma per il futuro, per decidere se è nel giusto o no,
aspettano che vinca. Sono come quelli che dicono “aderirei allo sciopero se
aderissero tutti”.
Una
teoria può essere buona a spiegare il passato e il presente e non a “spiegare” il
futuro?
“Di
tutte le cose che vanno spiegate
una
è spiegare le ali”[4]
Cosa è l’uomo?
Dalla
Nota 54 del Quaderno 10[5] Gramsci
risponde alla domanda “cosa è l’uomo?”. Secondo le concezioni del mondo che
hanno preceduto la concezione comunista l’individuo viene prima del collettivo.
Sarebbe l’individuo a creare il collettivo (Adamo che genera l’umanità, il
capitalista che si spaccia come creatore delle condizioni materiali per la
produzione e riproduzione dell’intera società). Secondo il cristianesimo
l’individuo è “persona”. Secondo il borghese l’individuo è l’io, cioè lui
stesso (lui, come individuo, si sente e si crede differente da tutti gli altri
individui: questo corrisponde al suo anteporre il proprio profitto al benessere
di ogni altro, anche dell’intera umanità).
Secondo
la concezione comunista del mondo il collettivo viene prima dell’individuo, e
anzi, secondo Gramsci, l’individuo non è una sostanza fissa e separata da
altre, ma è soggetto collettivo, intreccio di rapporti, per cui “farsi una
personalità significa acquistare conoscenza di tali rapporti, modificare la
propria personalità significa modificare l’insieme di questi rapporti (…) [e]
averne coscienza più o meno profonda (cioè conoscere più o meno il modo in cui
si possono modificare) già li modifica. Gli stessi rapporti necessari in quanto
sono conosciuti nella loro necessità cambiano d’aspetto e d’importanza. La
conoscenza è potere, in questo senso.”[6] Alla luce di
queste affermazioni la spiegazione della concezione comunista del mondo già
cambia il nostro interlocutore solo in quanto è resa nota senza pretendere che
chi la ascolta la faccia propria. Non a caso in molti corsi di formazione sul Manifesto
Programma del (nuovo)PCI , anche solo al primo livello, quello dove la
concezione comunista del mondo è semplicemente esposta, si creano situazioni di
conflitto a fronte delle prospettive di cambiamento che si aprono, e che
mettono paura, perché temiamo, trasformandoci, di perderci.
Oltre l’adesione identitaria
Sotto
una tabella dove a destra riporto lo scritto di Gramsci e in quella di sinistra
la traduzione in italiano moderno, (libero da censura fascista e ripulito da
falsificazioni revisioniste e da accademismi utili solo a perder tempo).
GRAMSCI[7] |
TRADUZIONE |
(…) Come è avvenuto il passaggio da una concezione meccanicistica a una concezione attivistica e quindi la polemica contro il meccanicismo. | Come si passa dalla adesione identitaria ad essere costruttori della rivoluzione e quindi la polemica contro la concezione della “rivoluzione che scoppia” per cause meccaniche, indipendenti da noi. |
L’elemento
«deterministico, fatalistico, meccanicistico» era una mera ideologia, una
superstruttura transitoria immediatamente, resa necessaria e giustificata dal
carattere «subalterno» di determinati strati sociali. |
La classe sfruttata è stata abituata a pensare che il suo destino non dipende da lei, e quindi non dipende da lei nemmeno la sua liberazione. Aspetta quindi che avvenga grazie a cause meccaniche (o grazie a qualche “grande uomo: “ci vorrebbe di nuovo Lenin! Ci vorrebbe di nuovo Stalin!”) |
Quando non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa quindi finisce con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente. «Io sono sconfitto, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare». È un «atto di fede» nella razionalità della storia, che si traduce in un finalismo appassionato, che sostituisce la «predestinazione», la «provvidenza» ecc. della religione. In realtà esiste, anche in questo caso, un’attività volitiva, un intervento diretto sulla «forza delle cose», ma di un carattere meno appariscente, più velato. | Soprattutto
quando le lotte si concludono sempre con sconfitte, allora diventa un
elemento di grande forza pensare che “un giorno la storia ci darà ragione!” e
“i nodi verranno al pettine!” Ci si aspetta questo come un tempo si aveva
fede nella provvidenza. Questo è quello che chiamiamo “adesione identitaria”
che ha avuto quindi un ruolo molto importante per un lungo periodo di tempo. |
Ma quando il subalterno diventa dirigente e responsabile, il meccanicismo appare prima o poi un pericolo imminente, avviene una revisione di tutto il modo di pensare perché è avvenuto un mutamento nel modo di essere: i limiti e il dominio della «forza delle cose» vengono ristretti, perché? perché, in fondo, se il «subalterno» era ieri una «cosa», oggi non è più una «cosa», ma una «persona storica», se ieri era irresponsabile perché «resistente» a una volontà estranea, oggi è responsabile perché non «resistente», ma agente e attivo. | Però al momento in cui chi è diretto inizia a dirigere, diventa responsabile di quello che accade, e la liberazione e la rivoluzione dipendono da lui, allora la adesione identitaria che fino ad allora era servita ora diventa un ostacolo a procedere, e un pericolo per il partito. C’è stato un cambiamento: prima eravamo “cose” e di noi succedeva quello che altri volevano succedesse, e al massimo, come “cose” potevamo resistere a chi ci attaccava come la pietra resiste al piccone, ma oggi no, oggi il piccone è in mano nostra. |
Ma era stato mai mera «resistenza», mera «cosa», mera «irresponsabilità»? Certamente no, ed ecco perché occorre sempre dimostrare la futilità inetta del determinismo meccanico, del fatalismo passivo e sicuro di se stesso, senza aspettare che il subalterno diventi dirigente e responsabile. C’è sempre una parte del tutto che è «sempre» dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto come anticipazione teorica. | Ma eravamo
solo pietra ieri? No. Anche ieri era sbagliato rimanere come degli stupidi ad
aspettare che la rivoluzione scoppiasse, ad aspettare il momento che chi era
burattino diventasse essere umano, perché ci deve sempre essere qualcuno che
si pone come dirigente e come responsabile, anche quando la reazione è più
dura, e così è sempre stato nel movimento comunista, con Marx ed Engels dopo
le sconfitte del movimento operaio nel 1848, con Lenin dopo la sconfitta
della rivoluzione del 1905 e il tradimento dei Partiti Socialisti della
Seconda Internazionale, con Gramsci che scrive questi Quaderni in
carcere, con Mao Tse tung che dirige il Partito nella Lunga Marcia e poi fino
alla vittoria, con la carovana del (nuovo)PCI che dopo la sconfitte del
movimento counista italiano e internazionale dagli anni Settanta del secolo
scorso in poi elabora questi strumenti che oggi impariamo a conoscere, a fare
nostri, a usare. |
Gramsci e Mao
Relazione tra la riforma morale e intellettuale di cui Gramsci parla e il sesto contributo del maoismo come definito dalla carovana del (n)PCI.
Sia
gli scritti di Gramsci sia quelli di Mao arrivano alle stesse conclusioni
sulla riforma morale e intellettuale. Si tratta di due dirigenti che hanno
elaborato l’esperienza della lotta di classe in condizioni opposte (paese
imperialista - paese oppresso e semicoloniale, uno in carcere - l’altro a capo
di un’armata, uno in Italia, l’altro in Cina) e che arrivano alle stesse
conclusioni, il che rafforza la convinzione che sono conclusioni oggettive,
scientifiche.
Di
seguito porto un esempio della coincidenza tra riforma intellettuale e morale e
sesto contributo del maoismo.
“Introduzione
allo studio della filosofia. I. Il termine di «catarsi». Si può impiegare il
termine di «catarsi» per indicare il passaggio dal momento meramente economico
(o egoistico‑passionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione
superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò
significa anche il passaggio dall’«oggettivo al soggettivo» e dalla «necessità
alla libertà». La struttura da forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo
assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento
per creare una nuova forma etico‑politica, in origine di nuove iniziative. La
fissazione del momento «catartico» diventa così, mi pare, il punto di partenza
per tutta la filosofia della praxis; il processo catartico coincide con la
catena di sintesi che sono risultato dello svolgimento dialettico. (Ricordare i
due punti tra cui oscilla questo processo: – che nessuna società si pone
compiti per la cui soluzione non esistano già o siano in via di apparizione le
condizioni necessarie e sufficienti – e che nessuna società perisce prima di
aver espresso tutto il suo contenuto potenziale).” [8]
Il
processo di trasformazione per cui si passa dall'essere comunista "perché
lo siamo" all'essere comunista perché lo diventiamo è effettivamente
catartico, nel senso che è un percorso travagliato tramite cui si giunge a una
liberazione da gravami che pesano addosso da sempre. Quindi è liberazione da
una situazione schiava di condizioni economiche imposte, o del momento
egoistico passionale, come dice Gramsci, e passaggio al momento etico politico,
cosa che tradotta significa che l'azione politica è prioritaria, e le questioni
personali o familiari dipendono da essa. Quindi non è prioritario che
innanzitutto mi occupi dei figli e che non manchi loro nulla, ma che io faccia
dell'Italia un nuovo paese socialista, perché l'avvenire di mio figlio dipende
da questo.
Non
sono più quindi un comunista che ha come riferimento come termine fisso e
prioritario le mie condizioni personali, familiari ed economiche come dato
oggettivo e necessario, ma che invece ha come riferimento lo stesso essere
comunista, cioè la mia soggettività e l'orizzonte di libertà che essa apre.
Questo nuovo modo d'essere comunista è quello indicato dal sesto contributo del
maoismo.
“Catarsi”
significa che in questa epoca noi lasciamo alle spalle millenni di oppressione
e conquistiamo la libertà, costruiamo la libertà, e nessuno ce lo può impedire.
Noi non siamo più schiavi dell’economia, dall’assillo di procurarci da vivere
che rende l’umanità schiava fin dai tempi della preistoria. Non decideremo più
seguendo gli obblighi che le leggi economiche impongono, ma noi imporremo le
leggi del comportamento collettivo, le leggi politiche, e del comportamento
individuale, le leggi etiche. Questo significa che è il soggetto a decidere,
che è la classe operaia, che sono le masse popolari, e non più una classe di
sfruttatori, che impone a noi le sue leggi dicendo che “sono leggi
oggettive”. I modi di produzione che si sono susseguiti fino a oggi sono stati
la struttura delle società divise in classi, e noi siamo stati
schiacciati, resi passivi, schiavi, servi, operai assorbiti in un meccanismo
estraneo. Oggi pero questa struttura si è evoluta in maniera tale che il
carattere collettivo delle forze produttive non rende più necessaria la
divisione in classi, cioè la proprietà privata dei mezzi di produzione e quindi
da sistema di oppressione che è sempre stata si è convertita in strumento di
liberazione, in spinta a liberarci, in imposizione a liberarci: essere liberi è
ormai un dovere. Questa condizione, che si realizza nella metà dell’Ottocento,
fa sorgere il movimento comunista cosciente e organizzato, e precisamente
nel 1848, con la pubblicazione del Manifesto del Partito comunista di
Marx ed Engels.
La
parte finale del testo di Gramsci tra parentesi è citazione dalla Introduzione
alla critica dell’economia politica di Marx: «Una formazione sociale non
perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali
essa è ancora sufficiente e nuovi più alti rapporti di produzione non ne
abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di
questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò
l’umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può risolvere; se si
osserva con più accuratezza si troverà sempre che il compito stesso sorge solo
dove le condizioni materiali della sua risoluzione esistono già o almeno sono
nel processo del loro divenire»
Come insegnare
Nella
tabella sotto nella colonna a sinistra Gramsci scrive come si insegna la
filosofia, nella colonna a destra è tradotto quello che vuole dire in italiano
moderno.
GRAMSCI [9] | TRADUZIONE |
Nell‘insegnamento della filosofia, rivolto non ad informare storicamente il discente sullo svolgimento della filosofia passata, ma a formarlo culturalmente, ad aiutarlo a elaborare criticamente il proprio pensiero per partecipare a una comunità ideologica e culturale, è necessario prendere le mosse da ciò che il discente già conosce, dalla sua esperienza filosofica (dopo avergli dimostrato appunto che egli ha una tale esperienza, che è "filosofo" senza saperlo). | Nell’insegnamento della concezione comunista del mondo, rivolto non a informare lo studente della storia che ha alle spalle, ma a formarlo, a insegnargli a pensare, così che possa essere partecipe di una forma di esistenza di livello superiore, cioè di essere espressione di un collettivo, e al livello più elevato espressione del Partito, è necessario agire per linee interne, partire da quello che lui sa e da quella a cui lui aspira (dopo avergli dimostrato che ciò cui lui veramente aspira, senza saperlo, è trasformare il mondo, cioè fare la rivoluzione). |
Comportamento immorale
Tre sono le forme di comportamento immorale
definite dal (n)PCI,
o
la prima è il rassegnarsi, corrispondente alla concezione clericale del
mondo,o la seconda è il salvarsi a spese altrui, corrispondente alla concezione borghese del mondo nella versione di destra,
o
la terza è il dedicarsi esclusivamente a sé, ai propri consanguinei e a
chi ci sta accanto, corrispondente alla concezione borghese del mondo ma in una
versione di sinistra. È “occuparsi della famiglia visto che lo Stato non se ne
occupa”, cosa che secondo il senso comune è tutto fuori che immorale. Il senso
comune infatti giudica una comportamento morale o meno in termini astratti,
come se stesse in relazione a leggi eterne. In realtà la moralità di una norma
sta nella sua efficacia: mangiare carne di maiale nei paesi arabi non è
immorale perché contrario al volere divino, ma perché dannoso per la salute.
Allo stesso modo occuparsi solo della famiglia in tempi di crisi generale per
sovrapproduzione assoluta di capitale significa danneggiare la famiglia. Un
esempio dei partigiani che lasciavano le famiglie e il combattere era modo per
difenderle. Nel nuovo movimento comunista tutta la famiglia deve abbracciare la
“lotta partigiana”.
Perché avanziamo lentamente?
I
motivi per cui “avanziamo lentamente” sono indicati nel numero 7-8 di Resistenza
di luglio-agosto 2014.
o
Parlando del primo motivo l’articolo descrive il dirigente che fa autocritica
come si fa al confessionale. Questo quindi è espressione della concezione
clericale del mondo. Il dirigente che fa in questo modo non si trasforma. Anche
questo corrisponde alla concezione clericale del mondo, in cui chi si confessa
con ciò si ritiene purificato e torna poi a fare come prima, il che non solo è
previsto ma è obbligatorio, perché “l’essere umano è peccatore”, e se smettesse
di esserlo, i preti perderebbero il lavoro.
o
Il secondo motivo per cui avanziamo lentamente è determinato dal “membro
di partito che rifiuta o recalcitra a intraprendere il processo di
Critica-Autocritica-Trasformazione della sua concezione del mondo, della sua
mentalità e in parte anche della sua personalità” (Resistenza 7-8, cit., p. 8).
Questo caso è catalogabile come modo della concezione borghese del mondo perché
il borghese, che pone l’individuo, cioè se stesso, come centro dell’universo,
non può mettersi in discussione, non può non essere “tutto di un pezzo”, e tale
è anche chi si reputa “comunista arrivato”. Vedremo poi nella sessione sul
Vaticano che la resistenza all’autocritica è propria anche della concezione
clericale del mondo. A partire dall’inizio dell’epoca imperialista, quando la
borghesia perde il suo carattere progressista, questa concezione dell’individuo
come centro attivo dal punto di vista intellettuale[10] e morale[11] si disgrega, l’individuo va a pezzi, come nel caso del
Dottor Jekill e di Mr. Hyde. Qui intervengono gli psicanalisti i quali però non
prevedono che il soggetto, di fronte al dramma che lo assilla, si trasformi, ma
che “si accetti così come è”, il che è conforme alla concezione borghese del
mondo che oltre all’individuo, positivo o negativo che sia, non vede. Riguardano la riforma morale e intellettuale i
versi di Mao riportati nell’ultimo numero di Resistenza, citato sopra, Guardati
dall’inquietudine traboccante che spezza il cuore/ getta un sguardo
lungimirante sulle cose del mondo. Brecht in Me-Ti, il libro delle svolte,
scrive: “I classici vissero nei tempi più oscuri e sanguinosi. Essi erano i più
sereni e fiduciosi degli uomini.” Mancanza di serenità è inquietudine, o
irrequietezza, il che, secondo Gramsci, si accompagna all’agire ciecamente, ma
anche è segno di ipocrisia.
Irrequietezza
Gramsci
tratta dell’irrequietezza nella Nota 58[12]
del Quaderno 14. Gramsci scrive: “Intanto non è vero che irrequieti siano solo
gli «attivi» ciecamente: avviene che l’irrequietezza porta all’immobilità:
quando gli stimoli all’azione sono molti e contrastanti, l’irrequietezza
appunto si fa «immobilità».” Nell’ultima Festa Nazionale della Riscossa
Popolare a Napoli gli “attivi ciecamente” erano quelli che cercavano di fare di
tutto e di più, che saltavano o ritardavano pranzi e cene, che perdevano notti
di sonno, e magari di fronte agli eventi restavano immobili: compagni che hanno
fatto la notte al momento che è cominciata una pioggia torrenziale non hanno provveduto
a mettere al riparo libri e materiale elettrico, e sono rimasti a guardare,
come se intervenire non fosse necessario, per cui si è perduto materiale. Da un
lato c’è chi fa e corre ovunque per fare tutto, dall’altro chi è fermo. La
soluzione non sta nel tentare di fare tutto, nell’incremento quantitativo del
fare, ma in un fare differente, in un fare che da artigianale diventa
industriale, diremo nell’ultimo seminario napoletano, il 27 luglio.
Il
fare cieco, e il fare di più, è proprietà del modo di produzione capitalista.
La borghesia come classe non sa quello che fa. Non ha uno scopo cosciente come
classe. La sua azione è una combinazione degli scopi che ciascuno dei suoi
componenti si propone, e ciascuno si propone il proprio profitto. La borghesia
non comprende che l’incremento del profitto all’infinito è impossibile. Non
comprende che la promessa di uguaglianza su cui fonda il patto con il resto
delle masse popolari è impraticabile, perché significa abolizione della
divisione in classi, e quindi abolizione di se stessa e del modo di produzione
capitalistico. Tutto quello che la borghesia fa è “fare di più”, cioè
contrastare la caduta tendenziale del tasso di profitto e, in particolare, in
questa fase terminale della seconda crisi generale per sovrapproduzione
assoluta di capitale, tentare di fare crescere una massa di capitale che è già
cresciuta in modo esorbitante rispetto alla quantità effettiva di merci
prodotte. È come se avessimo un immobile del valore di un milione di euro
attorno al quale si azzannano capitalisti ciascuno detentore di una quota a
quell’immobile riferita, con una somma delle quote cento volte quel milione, e
ciascuno pretendendo di incrementare la sua quota del dieci o venti per cento,
tramite affitti, speculazioni, vendita, distruzione dell’immobile al fine di
riscuotere l’assicurazione, eccetera. Il “fare ciecamente” e il “fare di più”
sono quindi catalogabili come modi della concezione borghese del mondo.
Gramsci
prosegue scrivendo: “Si può dire che l’irrequietezza è dovuta al fatto che non
c’è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che c’è una doppia
ipocrisia: cioè si opera mentre nell’operare c’è una teoria o giustificazione
implicita che non si vuole confessare, e si «confessa» ossia si afferma una teoria
che non ha una corrispondenza nella pratica.”[13]
Mancanza di identità tra teoria e pratica è, ad esempio, dichiarare che si vuole fare dell’Italia un nuovo paese socialista, che si vuole fare nella propria città una Amministrazione Locale di Emergenza, che stiamo portando avanti una Guerra Popolare Rivoluzionaria, ma non agire di conseguenza, non fare i passi necessari per mettere in pratica questo che noi ripetiamo perché sta nei documenti del partito e, in definitiva, non credere possibile che tutto quello che diciamo di voler fare si possa fare. Questo è uno dei corni della “doppia ipocrisia”.
Se uno non crede a tutta un serie di principi, metodi, obiettivi chiave della carovana del (n)PCI, perché ci resta, se ci resta, e come ci resta? Ci resta perché la carovana è l’aggregato del movimento comunista più avanzato del paese, a fronte del quale gli altri aggregati quanto più la crisi va avanti si manifestano inadeguati e in via d’estinzione. Chi non vuole cessare di riconoscersi ed essere riconosciuto come comunista trova nella carovana il migliore posto dove stare, o meglio “troverebbe”, perché nella carovana non si “sta”, ma si “va”, cioè ci si trasforma, e se così non fosse non sarebbe una carovana. A partire dalla prima LIA sempre si è prodotta questa contraddizione tra intendere l’organismo politico come un posto dove stare o come un mezzo con cui andare.
Gramsci scrive “Questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione. Ma c’è una terza ipocrisia: all’irrequietezza si cerca una causa fittizia, che non giustificando e non spiegando, non permette di vedere quando l’irrequietezza stessa finirà.”[14] Questo è riferito a chi, quando le cose non vanno bene, incolpa altri. All’esterno sono quelli che danno la colpa della sconfitta al nemico, alla borghesia imperialista, come non fosse obbligo della borghesia sconfiggerci con ogni mezzo, o alle masse popolari, che non ci capiscono o che non hanno il coraggio che abbiamo noi, che, cioè, non sono al nostro livello intellettuale e morale. All’interno, sono quelli che per una cosa andata male incolpano i dirigenti superiori, che hanno loro affidato una “missione impossibile” o i diretti, che non hanno eseguito i loro ordini.
Questa Nota si conclude dicendo “la crisi è talmente grave e domanda mezzi così eccezionali, che solo chi ha visto l’inferno può decidersi ad impiegarli senza tremare ed esitare”. Una compagna romana, intervenendo sulla questione al seminario napoletano su riforma morale e intellettuale alla Festa Nazionale della Riscossa Popolare di Napoli, rispondendo ai molti che erano intervenuti sulla questione dell’”inferno”, diceva giustamente che il vero nostro motore è il “paradiso”, cioè la prospettiva che si apre alle masse popolari e che i comunisti già sperimentano nel partito.
Sempre nel seminario napoletano, in un’altra sessione, sarà importante il contributo di un compagno dirigente del Partito che descriverà come “inferno” la situazione in cui era precipitato nell’ultima fase dell’attività che il Partito gli aveva dato da svolgere a Napoli, una crisi che aveva avuto il suo apice alla Festa della Riscossa Popolare dell’anno precedente.
Un esempio di irrequietezza
Al
seminario napoletano sulla riforma morale e intellettuale un compagno
napoletano aveva detto di essere capace di dirigersi, ma non di dirigere.
D’altro lato si smentiva, affermando di “mancare di serenità” e di “agire
ciecamente”. In una sua lettera successiva di fine settembre dove spiegava di
voler lasciare il partito avrebbe confermato la contraddizione che esprimeva
qui.
L’irrequietezza
o inquietudine di cui parla Gramsci nella Nota sopra citata secondo la
concezione della sinistra borghese è una cosa positiva e nobile, segno di una
visione critica del mondo, segno che “non c’è certezza”, come diceva Lorenzo de
Medici (“Quant’è bella giovinezza,/che si fugge tuttavia./Chi vuol esser lieto,
sia./Del doman non c’è certezza” [questa possiamo usarla per il settore
giovani, come esempio negativo, NdR]). Secondo Gramsci invece è ipocrisia: è
affermare un principio senza veramente crederci, cioè mancanza di assimilazione
della concezione comunista del mondo. È quindi immorale. A questo tipo di crepa
morale corrisponde l’errore logico che nella lettera del compagno è chiaro:
presumere che esiste una libertà al di fuori dei due campi, quello della
borghesia imperialista e quello delle masse popolari. Questi compagni pensano
che ci sono i borghesi, ci sono i comunisti, e c’è un terzo campo dove ci sono
loro. Questo terzo campo non esiste, in realtà. Chi tenta di vivere in questa
terra immaginaria agirà più ciecamente di prima e di sicuro non guadagnerà
alcuna serenità.
Disciplina
La
disciplina consiste nel seguire un insieme di norme, di principi morali
(“etici”). Gramsci scrive:
“Non
può esistere associazione permanente e con capacità di sviluppo che non sia
sostenuta da determinati principii etici, che l’associazione stessa pone ai
suoi singoli componenti in vista della compattezza interna e dell’omogeneità
necessarie per raggiungere il fine. Non perciò questi principii sono sprovvisti
di carattere universale. Così sarebbe se l’associazione avesse fine in se
stessa, fosse cioè una setta o un’associazione a delinquere (in questo solo
caso mi pare si possa dire che politica ed etica si confondono, appunto perché
il «particulare» è elevato a «universale»). Ma un’associazione normale
concepisce se stessa come aristocrazia, una élite, un’avanguardia, cioè
concepisce se stessa come legata da milioni di fili a un dato raggruppamento
sociale e per il suo tramite a tutta l’umanità. Pertanto questa associazione
non si pone come un qualche cosa di definitivo e di irrigidito, ma come
tendente ad allargarsi a tutto un raggruppamento sociale, che anch’esso è
concepito come tendente a unificare tutta l’umanità. Tutti questi rapporti
danno carattere tendenzialmente universale all’etica di gruppo che dev’essere
concepita come capace di diventare norma di condotta di tutta l’umanità. La
politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale, cioè come
tendente a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale
saranno superate entrambe.”[15]
“Battere
l‘accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità,
spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è veramente difficile e
arduo.” [16]
Polemiche e scissioni
Il
partito è il laboratorio dove si sperimenta la nuova morale che sarà morale
universale durante il socialismo.
“…non
può parlarsi di élite‑aristocrazia‑avanguardia come di una collettività
indistinta e caotica; in cui, per grazia di un misterioso spirito santo o di
altra misteriosa e metafisica deità ignota, cali la grazia dell’intelligenza,
della capacità, dell’educazione, della preparazione tecnica ecc.; eppure questo
modo di concepire è comune. Si riflette in piccolo ciò che avveniva su scala
nazionale, quando lo Stato era concepito come qualcosa di astratto dalla
collettività dei cittadini, come un padre eterno che avrebbe pensato a tutto,
provveduto a tutto ecc.; da ciò l’assenza di una democrazia reale, di una reale
volontà collettiva nazionale e quindi, in questa passività dei singoli, la
necessità di un dispotismo più o meno larvato della burocrazia. La collettività
deve essere intesa come prodotto di una elaborazione di volontà e pensiero
collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un
processo fatale estraneo ai singoli: quindi obbligo della disciplina interiore
e non solo di quella esterna e meccanica. Se ci devono essere polemiche e
scissioni, non bisogna aver paura di affrontarle e superarle: esse sono
inevitabili in questi processi di sviluppo ed evitarle significa solo
rimandarle a quando saranno precisamente pericolose o addirittura
catastrofiche, ecc.”[17]
“Una
coscienza collettiva, e cioè un organismo vivente, non si forma se non dopo che
la molteplicità si è unificata attraverso l‘attrito dei singoli.”[18]
Qui è indicata la funzione necessaria della lotta tra due linee e della lotta
ideologica attiva per la costruzione e il rafforzamento del partito.
L’estraneità dell’individuo rispetto al partito
“Un
organismo collettivo è costituito di singoli individui, i quali formano
l‘organismo in quanto si sono dati e accettano attivamente una gerarchia e una
direzione determinata. Se ognuno dei singoli componenti pensa l‘organismo
collettivo come un‘entità estranea a se stesso, è evidente che questo
organismo non esiste più di fatto, ma diventa un fantasma dell‘intelletto, un
feticcio.”[19]
Questo
vale per quelli che mettono l’individuo, cioè se stessi, prima del collettivo,
che sono nel partito ma non riconoscono, come prima cosa, che il partito sono
loro. Tutti pensassero a questo modo, il partito non esisterebbe.
Questo
modo di pensare e il comportamento che implica sono deleteri. Come altre cose
deleterie, è parte della concezione clericale del mondo. Gramsci lo dice:
“E‘ naturale che avvenga per la Chiesa, poiché, almeno in Italia, il lavorio
secolare del centro vaticano per annientare ogni traccia di democrazia interna
e di intervento dei fedeli nell‘attività religiosa è pienamente riuscito
ed è divenuto una seconda natura del fedele”. Non è naturale, però, che questo
avvenga nel partito comunista. Secondo Gramsci “ciò che fa meraviglia, e
che è caratteristico, è che il feticismo di questa specie si riproduca per
organismi "volontari", di tipo non "pubblico" o statale,
come i partiti e i sindacati.” In altre parole, nel partito si sceglie di
stare, per cui è strano che chi sceglie di starci non se ne senta parte.
Strano
in realtà non è, ma espressione di un limite che il partito deve togliere se
vuole fare la rivoluzione, se vuole fare dell’Italia un nuovo paese socialista.
Chi
pensa al partito come cosa estranea a se stesso si tiene distante dal partito.
La sua è mentalità piccolo borghese. Il (nuovo)PCI tratta la questione in La
Voce n. 18, del novembre 2004, in un testo dal titolo L’avversione
istintiva nei confronti del partito comunista, che riporto in gran parte:
L’avversione istintiva nei confronti del partito comunista
“Il
piccolo-borghese e chi è impregnato della sua mentalità per sua natura rifugge
dal partito, si sente respinto dal partito, lo trova un impedimento per la sua
individualità e la sua libertà, vi si sente a disagio, cerca di sfuggire alla
sua disciplina, cerca di servirsene. Oggettivamente il piccolo-borghese oggi va
dal lavoratore autonomo proprietario al lavoratore anche dipendente ma
abbastanza specializzato da essere più vicino (per le relazioni sociali in cui
è inserito nella pratica, anche rispetto al padrone da cui riceve un salario)
alla condizione di chi vende il prodotto del proprio lavoro che alla condizione
di chi vende la sua forza lavoro. Il lavoratore di questo tipo è per sua natura
una persona che crede di essere indipendente, autonomo dalla borghesia vera e
propria (che oggi è, tipicamente, la borghesia imperialista). La mentalità, il
carattere e il comportamento piccolo-borghesi sono quelli che corrispondono
alla natura piccolo-borghese, alla posizione del piccolo-borghese nella società
borghese. Consistono nel ritenere di essere individualmente autonomo,
indipendente; di potersi muovere in questa società individualmente per conto
proprio; di potersi fare individualmente la propria vita come gli piace. In
realtà il piccolo-borghese nella vita sociale e quindi anche individuale ha una
limitata autonomia dalla borghesia imperialista. Non è proprietario di mezzi
propri in quantità sufficiente per essere autonomo. Come classe, i
piccolo-borghesi dipendono strettamente dalla borghesia imperialista.
Individualmente quindi il piccolo-borghese è poco autonomo sia economicamente
sia intellettualmente e moralmente. A differenza del borghese che invece
dispone dei mezzi necessari alla propria attività individuale autonoma in
misura superiore a quella minima che le concrete relazioni sociali -
storicamente determinate per ogni concreta società - definiscono per consentire
a un individuo un’attività individuale autonoma. Chi condivide la mentalità del
piccolo-borghese, trova repulsione di fronte al partito. Oppure tende ad usare
il partito come strumento della propria affermazione individuale, senza
immedesimarsi nel partito. Insomma il contrario della mentalità a cui
l’esperienza spinge il proletario vero e proprio. Costui esiste socialmente solo
se si coalizza con altri. Solo a questa condizione ha nella vita della società
borghese un ruolo che va oltre quello di strumento del padrone per valorizzare
il suo capitale. Non ha le doti particolari e relativamente rare del lavoratore
molto specializzato (dell’intellettuale di successo, dello scienziato, del
professionista affermato, ecc.) che grazie ad esse è membro apprezzato della
società ed è dotato di una certa autonomia anche individualmente. Il proletario
tipico è rimpiazzabile ad ogni momento con relativa facilità con altri
individui relativamente abbondanti. Solo il numero organizzato fa dei proletari
una potenza sociale. Uno a uno non sono nulla, ognuno è rimpiazzabile in ogni
momento. La loro associazione è una potenza politica e culturale: questo è il
partito. Il piccolo-borghese si sente menomato dal vincolo di partito. Il
proletario grazie al vincolo del partito riesce finalmente ad esistere
socialmente. Come partito può fare cose che individualmente gli sono precluse,
tanto che neanche si illude (come invece succede al piccolo-borghese) di
poterle esercitare individualmente. Il proletario si sente realizzare nel
partito, sente di dovere tutto al partito, nel partito e grazie al partito si
sente finalmente libero (capace) di fare quello che individualmente neanche
sognava di fare. Il piccolo-borghese sente di aver dato molto al partito. Credo
di essermi spiegato: non parlavo del piccolo-borghese in termini di insulto, ma
di categoria sociale relativamente vasta. Una vasta categoria sociale che solo
con difficoltà si adatta a diventare un uomo di partito, la rotella di un
ingranaggio, la cellula vivente di un organismo, una parte attiva di un insieme
sociale organizzato.
I
comunisti che provengono da questa categoria sociale devono compiere uno specifico
percorso per integrarsi completamente nel partito. I proletari che hanno
appreso la lotta politica e il comunismo negli ambienti delle Forze Soggettive
della Rivoluzione Socialista sono anch’essi più o meno impregnati di quella
mentalità. Sono abituati a una piccola autonomia, a poco potere, a piccoli
risultati e a piccoli obiettivi. A pensare in piccolo e a sbrogliarsela
individualmente. La costruzione del partito comunista implica la trasformazione
di questa mentalità, lo sdoppiamento dell’adesione al comunismo dalla
dipendenza dalla borghesia. L’uno deve dividersi in due. Tramite la critica,
autocritica, trasformazione. È un processo che richiede tempo e sforzi, ma è un
processo liberatorio, di emancipazione dalla borghesia imperialista, bello e di
grande soddisfazione, creativo.”
Gramsci,
che sta trattando la stessa materia, nella sua Nota scrive: ” Il singolo
s‘aspetta che l‘organismo faccia, anche se egli non opera e non riflette che
appunto, essendo il suo atteggiamento molto diffuso, l‘organismo è
necessariamente inoperante.” Insomma, se tutti si aspettano che il partito
faccia qualcosa, visto che il partito sono loro, tutto è fermo, e quanti più
sono quelli che si aspettano, tanto più il partito è fermo. Per tutti gli
ambiti e il tempo in cui il partito è stato fermo e negli ambiti in cui
continua a esserlo, è bene verificare quanti compagni hanno e quanto ogni
compagno ha questo atteggiamento passivo. È una questione di vita. “ questione
di vita non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la
partecipazione quindi dei singoli, anche se ciò provoca un‘apparenza di
disgregazione e di tumulto”,
Sconvolgimento della vecchia concezione e della vecchia morale
“Il
moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti
intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni
atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in
quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a
incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle
coscienze, della divinità o dell‘imperativo categorico, diventa la base
di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di
tutti i rapporti di costume.”[20]
Economia
Un
compagno venuto da Milano al seminario su riforma morale e intellettuale di
Napoli ha detto che la dedizione alla causa si vede nel modo in cui trattiamo le
questioni economiche. L’economia è cruciale per la nuova morale.
Si
tratta del considerare le risorse economiche come proprie oppure come
collettive. Consideriamo normale affidare i soldi a banche, che li usano per le
speculazioni o per operazioni criminali o devastanti per l’ambiente, e non
consideriamo normale affidarli al partito. Anche qui “immorale” significa
“contrario al proprio interesse”: il partito infatti si fa garante di ogni
esigenza di chi si affida ad esso (e non solo), mentre la banca, invece, e pure
lo Stato, oltre a usare il denaro che le masse popolari affidano loro per
speculazioni, devastazioni e crimini di ogni tipo, se ne appropriano
risucchiandolo a poco a poco o anche di colpo, con il prestito forzoso.
I
più grandi dirigenti del movimento comunista non hanno mai avuto nè hanno
proprietà di beni o denaro.
Sacrifici
Secondo
il senso comune i comunisti, Gramsci incluso, sono gente che si sacrifica per
la causa, che sacrifica alla causa il proprio tempo, le proprie risorse, la
propria vita. Un compagno, al seminario napoletano sulla riforma morale e
intellettuale spiega che la parola “sacrificare” viene dal latino “rendere
sacro”. In effetti né Gramsci né i comunisti o le comuniste hanno perso
qualcosa a vantaggio della causa, o meglio, hanno perso tutto ciò che impediva
di essere uomini e donne nuovi, e si sono realizzati pienamente. Forse il
compagno intendeva questo realizzarsi come “rendere sacro”?
È
senso comune quello di compagni e compagne che dedicano qualcosa alla causa,
però dicono che hanno bisogno anche di “tempo per se stessi”, per i quali vale
il pensiero che il tempo dedicato alla causa è “sacrificato”.
Il partito “totalitario”
Bisogna
imparare a pensare e sapere trasformarsi, comprendendo che il partito viene
prima all’individuo. Questo intende Gramsci quando parla di “partito
totalitario”[21],
secondo un giovane compagno la cui famiglia viene da uno dei primi paesi socialisti.
Un altro compagno aggiunge che il partito è “totalitario” perché orienta la
vita di una persona nel suo insieme. La concezione comunista del mondo consente
di decifrare la realtà di tutta la nostra vita. Il partito non costringe, ma
libera.
Il
partito, infatti, più che totalitario è organico, cioè è un tutto come lo è un
organismo vivente.
[1] Antonio Labriola, Discorrendo
di socialismo e filosofia, 1898.
[2] Ivi.
[3]
http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_16.
[4] Paolo Babini, Spiegare,
2006,
[5]
http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_10
[6] Ivi.
[7] Q8 §205, in
http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_8
[8] Quaderno 10, Nota 6,
in http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_6.
[9] (Quaderno 11. Nota
13) in http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_11
[10] Cartesio, (L’Aia,
1596 – Stoccolma, 1650) uno dei fondatori della concezione borghese del mondo,
parte chiedendosi se il mondo, lui incluso, sia realtà o sogno. Scopre quindi
che questa domanda che pone a se stesso significa che sta pensando, e questo
suo pensare conferma che lui esiste. La formula conclusiva è perciò “penso,
quindi sono” (cogito, ergo sum).
[11] Spinoza (Amsterdam,
1632 – L’Aia, 1677), scrive i fondamenti morali della concezione borghese del
mondo: la virtù fondamentale è quella che consente di conservare noi stessi e
svilupparci, perché solo così facendo potremo essere utili anche agli altri. La
formula è quella per cui dal bene individuale discende il bene collettivo.
[12] in
http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_14.
[13] Ivi.
[14] Ivi.
[15]
http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_6
[16]
http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_14.
[17] ivi.
[18]
http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_15.
[19] ivi.
[20] http://www.nilalienum.com/Gramsci/QC(GS)int.html#QUADERNO_6.
Questa i revisionisti non sono riusciti a falsificarla. Questo, secondo
Giuseppe Prestipino, è “il più discusso e deprecato dei passi gramsciani”
(Autori Vari, Gramsci e il marxismo contemporaneo, Editori Riuniti,
Roma, 1990, p. 52.
[21] In Quaderno 13, Nota
21.
Nessun commento:
Posta un commento